Writings
(Dal catalogo della mostra “Le gioiose ceramiche di Paolo Staccioli”, Museo delle Porcellane, Palazzo Pitti, Firenze, 2005-2006)
La leggerezza, la grazia, l’ironia. Ecco tre stelle fisse per orientarsi nell’opera di Paolo Staccioli ceramografo. La leggerezza prima di tutto perchè la materia è pesante, pesanti e complicate sono le tecniche. Non ci vuol niente a farsi trascinare in basso verso la irrimediabile opacità del mestiere saccente e compiaciuto. Staccioli lo sa. Non glielo ha mai detto nessuno. Lo sa d’istinto e gioca come sollevato a mezz’aria, schivando retoriche ed estetismi, volando via veloce come un uccellino sagace dalle insidie citazionistiche e virtuosistiche.
Poi la grazia che è una virtù duttile e trasparente. Non la si impara a scuola e neppure a bottega. Dio la dà a chi vuole. Per un artista grazia è la capacità di usare il linguaggio del suo tempo (per Staccioli la lingua del secolo è quella di Arturo Martini, di Giacometti, di Marino, di Fantoni, etc) in un modo individuale, riconoscibile, inconfondibile e al tempo stesso gradito, suasivo, stimolante. Uno guarda una ceramica di Staccioli, ne accarezza la pelle iridata, ne valuta il peso, la forma, le proporzioni, sente cantare l’ingobbio lucente quando l’unghia lo sfiora, si accorge che, alla vista e al tatto, il cuore si scalda e gli occhi provano curiosità e piacere; ecco questo è il riconoscimento della grazia. La grazia: qualcosa di indefinibile che gli altri chiameranno (ma la formula è convenzionale e un poco raggelante) riconoscimento dell’autentica individualità dell’artista. Io, quella cosa, preferisco chiamarla grazia, e voglio testimoniare che le ceramiche di Staccioli la possiedono. Infine l’ironia, la capacità di giocare con tenerezza e stupore di fronte alle sirene della modernità e alle memorie dell’antico. Si può scherzare con il Marte di Todi e con l’Arringatore? Con lo Stile Orientalizzante e con il Liberty? Con le torri di San Gimignano e con l’obelisco di Axum? Con Giò Ponti e con Picasso? Certo che si può, anzi si deve. Poiché l’ironia, il sorriso, il disincanto sono antidoti efficacissimi contro la retorica e contro i manierismi.
E dunque, ricapitolando, la leggerezza, la grazia, l’ironia. Usate queste tre chiavi di lettura quando guardate le ceramiche di Paolo Staccioli e vi accorgerete che non ne esistono di migliori per riconoscere l’autentica qualità quando la si incontra.
(Dal catalogo della mostra “Paolo Staccioli. Le cortesie, le audaci imprese io canto”, Loggia della Limonaia, Palazzo Medici Riccardi, Firenze, 2014)
Un popolo di creature inquiete, in movimento e in trasferta, o in una stasi forzata e precaria: ecco chi ci viene incontro da questa bella mostra di Paolo Staccioli, che aggiunge alla sua rassegna di importanti esperienze espositive l’approdo in luoghi prestigiosi della cultura fiorentina, portatori di antiche e autorevoli tradizioni, quali Palazzo Medici Riccardi e l’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella. Così almeno mi pare di percepire la sua folla di persone dalle varie età, le sue mandrie di cavalli al galoppo, o dipinti sui vasi o tridimensionali in carovane azzoppate e frammentarie giostrine. Gente che si sposta, con le armi addosso o con la valigia in mano. Guerrieri in bell’ordine dentro navicelle, coraggiosi come Etruschi su fragili legni in cerca di sbarco, immemori come migranti perennemente a rischio di naufragio. Viaggiatori assiepati su sfere e vasi globulari, destinati a scivolare dabbasso. Figure che emergono da sfondi astratti, prendendo esistenza e forma nel liberarsi dall’abbraccio dell’argilla originaria. Arlecchini maschi e femmine, in fuga da qualche indesiderato Carnevale. Anche chi sta fermo serba, nella posa rigida e frontale, qualcosa di uno slancio che si è appena bloccato o che sta per riprendere. Vien da credere che, appena volteremo l’occhio, i carri dalle ruote raggiate o piene dei viaggiatori ritti si rimetteranno in moto per misteriosa forza propria, il cavaliere darà l’abbrivio al suo cavallo su ruote, enorme giocattolo di foggia arcaica. I due seduti sul dondolo cominceranno a dondolare. Gli uomini compassati e perfino azzimati – in grisaglia fumo di Londra, maglioni quadrettati o giacche fantasiose – lanceranno finalmente il pallone che Staccioli gli ha messo in mano o in spalla. Le giostrine gireranno e la cavalcata si rimetterà in moto, con i cavalieri su cavalli monchi a inseguire un commesso viaggiatore solitario. Attendiamo le mosse delle terne: qua di guerrieri catafratti nei giri dei loro cilici, là di temibili signore del colore dell’aurora… Lo splendore dei lustri metalli su una gamma cromatica succosa, che sa di terra e di frutta, seduce, incanta, distrae: e le instabilità, i fremiti e le attese di questo piccolo grande mondo – che tutto è fuorché gioioso o giocoso – si rivelano solo al secondo o al terzo sguardo o forse mai. Confidente nella grande dimensione, Staccioli espande su grande scala figure, cavalli e carri, che s’impongono anche con l’autorità della fusione in bronzo. In questo universo di personaggi senza casa, esuli e fuggiaschi, non mancano limitate risorse abitative. Torri sbilenche e striate, una coppia Garisenda-Asinelli tutto sommato accogliente, con le loro porticciuole aperte e creature affacciate sulla sommità. Ma anche un terra-tetto progettato da un architetto distratto, con una scala esterna troppo corta, da cui il presunto principe non giungerà mai alla finestra della probabile principessa, per quanto si arrampichi. Invenzioni che fanno sorridere, nella scia di quell’arte del Novecento provocatoria e ludica, cui bene fa riferimento Anita Valentini nel suo commento; e insieme però ispiratrici di vaghe malinconie, come quando nel crepuscolo si ripensa alle occasioni mancate, o non si è sicuri che la storia che stiamo vivendo abbia un lieto fine. Per l’incertezza umile e sognante, di cui quest’arte ci regala istanti preziosi in tempi di assertività arrogante e frettolosa, si deve esser grati a Staccioli e alla sua attività silenziosa e tenace, foriera senza dubbio di nuovi raggiungimenti e di nuovi sviluppi.
(Dal catalogo della mostra “Paola e Paolo Staccioli, Passaggi”, Auditorium del Comune, Piazzale della Resistenza, Scandicci, 2017)
C’è una qualità che trascorre – come una linea ininterrotta – tutta la storia delle nostre terre. Da sempre infatti l’austerità – formale e intellettuale – impronta la cultura della gente che in Toscana vive. Succede dall’età più antiche; e tocca anche i giorni nostri, nonostante i venti attuali (che secondo il solito soffiano da ovest, venendo di là dall’oceano) siano latori d’immagini e messaggi capaci d’uniformare e appiattire menti e cuori, anche i più disparati. Degli etruschi è perfino inutile dire, giacché la severità dei loro manufatti e delle loro opere d’arte è a tal segno perspicua da non abbisognare d’alcuna chiosa. Chi poi conosca almeno un poco il romanico e il gotico toscani sa bene che si distinguono giustappunto per la loro sobrietà. Ma anche l’Umanesimo e il Rinascimento, che in Toscana peraltro toccano il picco assoluto, quasi s’alimentano della medesima austerità rigorosa; la quale, anzi, di quelle due stagioni si fa financo emblema. Senza parlare del Seicento e del Settecento, che da noi s’astengono dai voli barocchi e dai capricci rococò. Né altrove poteva nell’Ottocento nascere la pittura di ‘macchia’, con quelle parche visioni di natura, sovente dipinte su tavolette esigue. E finalmente gli artefici del Novecento; che alla grave e massiva lettura della realtà di primo Quattrocento addirittura rimontano (si rammenti lo studio dei toscani – Rosai in testa – nella cappella Brancacci, condotto alla stregua dei grandi d’inizio Cinquecento – da Michelangelo al giovane Raffaello – che al Carmine andavano a copiarsi le storie affrescate da Masaccio).
Ecco, le sculture di Paolo Staccioli s’inseriscono bene nel percorso che s’è appena disegnato. Le sue figure, veridiche eppure astratte, tornite e levigate, austere anche quando le ingentiliscono decori eleganti e colorati e perfino con qualche bagliore dorato, sono segnate dalla vena severa che dai primordi sotterranea traversa la cultura della nostra terra.
I suoi guerrieri, di complessione solida, compatti come se la corazza si fosse incarnata nei loro corpi rendendoli invulnerabili, sono della stessa genìa dell’armigero di Capestrano; ma di lui – se possibile – ancor più primitivi. Corazze senza snodi; quasi che gli arti ne possano spuntare come dal guscio d’una testuggine. Al loro cospetto ho spesso coltivato la fantasia di vederne decine, irreggimentati come l’esercito cinese di terracotta. E mi sono immaginato il loro schieramento, fitto di presenze tutte eguali, disposte in un lungo corteo silenzioso, non già a simboleggiare (come in oriente) la difesa strenua dell’imperatore anche oltre la morte, bensì a evocare un’umanità che si schiera per proteggersi – stavolta – dall’omologazione imposta dal regime informatico, ultimo despota. Un’umanità che, forte d’una coscienza storica solida, non teme il nuovo, ma la violenza invadente e prepotente d’un nuovo che fa terra bruciata dietro di sé.
L’antico e la tradizione seguitano a proporsi come modelli; non già per via di sentimenti nostalgici, bensì in virtù della convinzione che il passato, quand’è lirico e cólto, pur sempre resta esemplare; indispensabile per vivere consapevolmente la stagione che c’è toccata. Vigili come sentinelle, i “guerrieri” (li chiamerò così) che Paolo ha plasmato non s’oppongono ai tempi nuovi; sorvegliano però che la nobiltà trascorsa non venga dimenticata o irrisa addirittura. La loro militanza sarà utile per le generazioni giovani, cui la memoria dell’antico dovrà suonare come un magistero amabile e non tedioso come una formazione scolastica senza più passione glielo fa avvertire.
Laddove poi la modernità s’arrocchi nell’intransigenza e si cinga di baluardi, a tutela arcigna d’una sua assoluta signoria, l’aulica tradizione avrà diritto d’espugnarne la roccaforte. Ed è – questa – una metafora che aggalla spontanea quando lo sguardo si distolga dai guerrieri ieratici e si volga al cavallo sulle ruote: icona a mezza via fra l’astrazione sintetica dell’austerità etrusca e la gravità elegante delle figure di Marino. L’immagine del cavallo sulle ruote evocherà infatti lo stratagemma architettato da Ulisse per vincere la resistenza troiana. Verrebbe, anzi, di dire che di quell’espediente astuto può assurgere financo a emblema. E sulla scia di questo sogno mitico ci si figurerà un manipolo di quell’esercito d’uomini d’arme, solidi e severi, che nella fortificata cittadella popolata di creature informatiche s’insinui celandosi nel ventre del simulacro monumentale d’un cavallo cui le ruote hanno consentito di varcar la soglia dell’arce; magari, anzi, spinto dentro – come nella vicenda omerica – da chi poi n’avrebbe patite le conseguenze. Rivalsa dell’antico sull’arroganza 2.0.
Ogni attore delle teatrali messinscena di Paolo è una creatura silente, assorta in pensieri impossibili da comunicare; come fosse un kouros, oppure, una kore, quando un accenno di seno traspaia sotto le trame d’una ceramica d’eleganza sobria messe a fasciare il busto. Creatura solitaria anche quando sola non sia. Anche quando salga sul carro con altri personaggi; o, con altri ancora, cavalchi – in una giostra in miniatura – uno di quei cavallini ritti sulle zampe di dietro, che in circolo s’inseguono senza speranza di raggiungersi mai. Donne e uomini di fiaba che se ne stanno seduti su mondi a loro estranei, volgendosi – disinteressati l’uno dell’altro – le spalle. Figure raggelate nell’indifferenza; pronte, ora a partire per viaggi che l’esigue valigie lasciano presagire di piccolo tragitto, ora a farsi carico, come fossero della stessa schiatta d’un Atlante primordiale, del peso d’un globo.
(Dal catalogo della mostra “Paolo Staccioli. Guerrieri, cavalli e centauri”, Magazzini del Sale, Palazzo Pubblico, Piazza il Campo, Siena, 2019)
E’ difficile stabilire se sia stato il destino di una scia affettiva, di una storia familiare raccontata dallo stesso Staccioli, o quella dei cavalli, a intrecciarsi in una comune strada. A ‘Cavallo del tempo’ si ricostruisce una sedimentazione forse veramente vissuta: il cavallino con le ruote, un giocattolo che vediamo in mano al padre dell’artista ritratto all’età di tre anni in una foto del 1917. O piuttosto il più lontano Cavallino con le ruote, il giocattolino in terracotta del sec. X a.C.. Scalpiteranno gli zoccoli, ancora, da quella lontananza a questo presente. Solo il nitrito scompare in dissolvenza. Durevoli ricordi. Eccoli apparire in sogni che girano nelle giostre, volteggiano assieme a cherubini; si mescolano a polvere e sudore nelle Battaglie di Paolo Uccello. Cavalli che Paolo Staccioli, negli anni ottanta, dedica al protagonista delle sue visioni, irrompono poeticamente, nel suo mondo pittorico e scultoreo. “E se – come ha scritto Cristina Acidini in occasione della mostra al Museo di Arte Sacra a San Casciano Val di Pesa (FI) nel 2017) – i cavalli disegnati o graffiti o modellati trasmettono un senso di così vitale e disinibita libertà da potersi paragonare agli animali evocati sulle pareti delle grotte dagli sconosciuti artisti del Paleolitico, anche per loro si prospetta la costrizione di un movimento ripetitivo predisposto e comandato da un’autorità sconosciuta quando vengono messi in cerchio a correre l’uno dietro l’altro in improbabili giostrine in cui l’allegria è una vernice sottile”. Per Paolo, il cavallo è un animale mitico, divino plasmato dalla dea Atena, trapassato nella sua memoria, con libertà, leggerezza, e l’ironia riconosciute dalla critica fin dagli esordi (Nicola Micieli 1997, Tommaso Paloscia 1999, Antonio Paolucci e Ornella Casazza 2005, Claudio Paolini 2011). L’arte del cavalcare, che attraversa il Tempo, entra nel suo repertorio figurativo rivelandosi ricco di suggestioni sapientemente combinate. Chiuso nel suo laboratorio “l’antico e la tradizione – come ha detto Antonio Natali nel catalogo della mostra di Paolo Staccioli nel Comune di Scandicci nel 2017 – seguitano a proporsi come modelli; non già per via di sentimenti nostalgici, bensì in virtù della convinzione che il passato quand’è lirico e colto, pur sempre resta esemplare; indispensabile per vivere consapevolmente la stagione che c’è toccata”. Nel silenzio l’artista riflette plasmando memorie lontane, di piaceri provati sui testi, nelle sale dei musei “riscoperti e ricreati con libertà e candore; modella la sua identità e la sua partita si gioca in una contraddizione tra il bisogno di essere moderno e antico, conservatore di forme e di cangianti superfici” (Ornella Casazza 2001). Recupera linee di tensioni, suggerisce varianti; ironico il suo Eros che, come bambino alato, gioca da solo o con altri fanciulli divini modellati sul collo di un vaso, che rievoca i vasi prodotti in antico a Canosa di Puglia e da lui realizzati negli anni Novanta (Maria Anna Di Pede, 2009) in faenza ingobbiata dipinta con ossidi e sali sotto vernice e lustrata in splendidi colori che rifulgono di bagliori di tramonto e di iridescenze lunari, favoriti dalla complicità del fuoco. Un puttino cavalca dall’aprile 2000 nella bellissima natura del Parco di Poggio Valicaia, sopra Scandicci, abbracciato al collo di un possente cavallo in bronzo alto due metri, verde come il cavallo di terra verde di Paolo Uccello, e lo guida sicuro a esplorare il creato e le vie degli uomini. Staccioli, con imprevedibile novità, sapienza compositiva, genialità espressiva, costruisce l’immagine fantastica e visionaria del reale nel suo rapporto con il paesaggio. Un paesaggio che è sempre lo stesso, carico di racconti incastonati a loro volta in racconti di cavalli, di leggeri cavalieri sospesi nel vuoto, di personaggi in bilico in originali dondoli: forme fitte nello spazio, senza gerarchie prospettiche o temporali: vicino e lontano, prima e dopo perdono di senso. La spazialità, pur sempre compressa da piccoli cavalli in rilievo si definisce nelle armature dei suoi bonari e immobili guerrieri che pur armati di lancia e scudo e provando forse un sentimento di rimpianto per un luogo dove non sono mai stati, non torneranno né partiranno mai per combattere. Poi c’è la nostalgia, pena della lontananza, perdita non di un luogo cui vorremmo tornare, ma del luogo in cui in quel tempo siamo stati e non possiamo più essere; la salvezza per Paolo è questo assecondare un vento di inquieti turbamenti che ci riconduce ad una terra emozionale a noi nota. Appaiono poi, malinconici, uniti con solida naturalezza, gruppi di sette, otto, dieci, cento silenziosi guerrieri, enigmatici viaggiatori che, sebbene pronti per un viaggio di ritorno nella memoria, non partono: attendono, forse un gruppo di altri Viaggiatori con sfera in giacca e cravatta sgargianti che tengono in mano o sulla spalla una sfera, atlanti del quotidiano che sorreggono il mondo. Mitografie del presente, queste figure maschili e femminili si allontanano dalla realtà, in un mondo che non esiste ma è tangibile nella mente di Staccioli quando riflette su memorie surreali e metafisiche.
(Dal catalogo della mostra “I Segni della Terra”, Museo Archeologico di Fiesole, 2007)
Una selva gremita di cavalieri si scontra in un intarsio di armature, lance e vessilli, araldi suonanti e drappeggi; una giostra di cavalli indomiti, incalzati dal morso degli speroni, si contende all’impazzata il primo piano della scena, portando con sé guerrieri tesi ed eccitati dalla battaglia, rivestiti di luccicanti bardature. Un’architettura sublime di trame, luci e volumi, dalla quale si erge fieramente un destriero, si impenna liberandosi dal giogo del cavaliere, e diviene centro focale, punto prospettico e sommo della rappresentazione. È la celebre Battaglia di San Romano, dipinta da Paolo Uccello nel 1456, per celebrare la vittoria che le truppe fiorentine riportarono il 1 giugno 1432 sulle milizie senesi, capeggiate da Bernardino della Ciarda.
Un miracolo di abilità compositiva, che gareggia per modernità e forza espressiva con le avanguardie storiche del Novecento, capace di suggestionare l’immaginario di un artista contemporaneo, poiché suscita un continuo interrogativo sul percorso della costruzione dell’opera d’arte, là dove è volto a rinvenire il punto di equilibrio fra il compiacimento estetico, l’elaborazione concettuale e la rappresentazione dell’irreale. Una narrazione nella quale l’elemento cronachistico cede audacemente il passo all’evocazione poetica, vibrante fra le irregolarità ardite e sensuali del colore.
Dalla contemplazione della Battaglia di San Romano Paolo Staccioli trasse forse, ancor prima che la sua natura artistica fosse giunta a piena maturazione, il sostegno di una sfera immaginativa in grado di sviluppare il già nutrito potenziale di energia espressiva in suo possesso. Ora la vis esaltante del cavallo che disarciona il condottiero, con le sue forme schematizzate e ridotte a puro volume, si associa alla nozione di un’immagine, già patrimonio della sua coscienza visiva. E una foto del padre bambino, che ha voluto farsi ritrarre con il suo balocco preferito, un cavallino di legno fissato ad un telaio con le ruote, finisce per conferire corporeità a quella visione. In quel cavallo, ecco condensarsi il significato dell’atto creativo: un’immagine che si offre all’artista facendosi riconoscere per la propria familiarità, per l’ospitalità che può offrire al suo immaginario nomade. Gli offre il ricordo struggente di stagioni perdute, l’unico luogo nel quale l’immaginazione può ancora vincere il confronto impari con la disarmonia e la menzogna del reale.
Così è asserito il fatto primo della genesi della vita artistica di Paolo Staccioli, un ripercorrere diacronico della duplice infanzia, sia questa biografica e familiare, che della tradizione artistica fiorentina: ed il ritorno alla dimensione onirica, primordiale, con la costante riproposizione dei suoi simboli figurali, è così la modalità che verrà a segnare indelebilmente, quale struttura portante, il suo operare artistico.
Si dimostra evidente fin dalle prime prove di pittura, per le quali dobbiamo risalire al principio degli anni Settanta. Pervaso da epifanie nostalgiche, Staccioli riversava sulla tela i suoi capriches così come si formavano nella sua mente: irrazionali e giocose fantasmagorie, con giostre di cavallini-giocattolo che vibrano nell’aria accompagnate da putti volanti; suonatori di trombe, giocolieri, bambole e pulcinella si muovono con passo danzante fra schiere di cavalli, fluttuano in vastità ventose, inondano la tela di storie senza tempo, guidate dal sentimento ora velatamente malinconico, ora burlesco, del loro creatore.
Un mondo che sembra animato solamente da girandole vorticose di personaggi fantastici e cavallini; un mondo dove non esiste né regola prospettica, né struttura compositiva che possa condizionare, in qualche modo, il libero dilatarsi della sua inesauribile inventiva. Un universo formale che gli garantisce un legame illusorio con il passato, scomposto e poi ricomposto nella rete dei ricordi in cui si insinua la memoria dell’artista, spinta fino a presentarci un congegno schiettamente originale, intessuto del suo corteo di associazioni, di rievocazioni, di sogni.
Sono immagini che si susseguono e si rincorrono nel loro farsi: quasi come non vi fosse premeditazione, si assoggettano ad una continua metamorfosi nella forma e nel movimento, cariche d’una suasiva ed accattivante componente simbolica.
Esercita spesso Staccioli, in queste prime prove di pittore, il suo diritto eccezionale di trasfigurazione in chiave fiabesca del capolavoro di Paolo Uccello sfidandone, in qualche modo, la sacralità, soprattutto per mezzo dell’inserimento dei ‘suoi’ cavallini i quali, con i loro telai ruotanti, si insinuano fra le gambe dei destrieri quattrocenteschi, infiltrandosi, con candida invadenza, nel loro spazio.
Si permette così Staccioli le più spericolate acrobazie, affidandosi alla sorgente inesauribile dei suoi giochi immaginari: ne risulta una prosa vivace e disincantata, ricca di neologismi, a metà fra il colto ed il dialettale, fra iconicità tradizionale e fresca spontaneità, respingente ogni ortodossia formale.
La gamma cromatica, in queste prime prove pittoriche, è volta per lo più all’ottenimento di tenui ed aeree trasparenze; sottili e palpitanti variazioni del monocromo dei fondali, con un prevalere di smorzate sfumature di celeste, contrastano con il candore bianco-grigio delle silhouettes dei cavalli e dei loro bizzarri compagni. La texture del fondo è spesso ottenuta con una pennellata irregolare, veloce e liquida, mentre le figurette, quasi a richiamare l’effetto dell’acquarello, appaiono come piccoli punti di luce, ricavati per assenza di colore, per vuoto.
La frequentazione della pratica pittorica rimane per Staccioli, si può dire, esclusiva per quasi un ventennio, fino a che, al principio degli anni Novanta, il fascino e l’attrazione per quel medium che l’avrebbe portato a trovare un’inedita sintesi estetica, più congeniale alla sua indole artistica, lo porta a Faenza, nella bottega del ceramista Umberto Santandrea.
Ora, se dell’apprendistato nella bottega faentina, così come della fase aurorale di Staccioli ceramista, si è già molto parlato, non sarà inutile soffermarvisi ancora, principalmente per mettere in risalto un elemento costitutivo della sua abituale vicinanza con periodi storici precedenti, quando il “mestiere” veniva acquisito nell’ambito di una bottega, o, più anticamente, di una corporazione. Nella cultura di Staccioli vi è un retroterra artigianale, una prassi secolare che gli appare subito indisgiungibile dall’idea stessa di pratica artistica. Una cultura, insomma, che accetta il vincolo del passaggio per tutte le fasi obbligate che la tradizione predispone: l’apprendistato, per raggiungere la padronanza del mestiere, e soprattutto l’esercizio, costante, quotidiano, grazie al quale l’occhio e la mano si addestrano alla percezione di un mondo sconfinato di forme e colori.
Sono sufficienti pochi mesi di frequentazione della bottega faentina perché Staccioli, dopo aver rapidamente consumato le basilari desunzioni della smaltatura e della cottura, possa mettere a punto i suoi primi vasi, dove risulta evidente un orientamento decorativo ispirato ad una rilettura dei temi che già aveva sviluppato in pittura.
La campitura adesso è la superficie del vaso, che viene invasa dagli usati racconti pittorici: le parate di destrieri dalle forme geometrizzanti, i cavallini con le ruote, ed ancora le figurine leggiadre dei putti alati, i pulcinella e le bambole, costituiscono adesso la base di una miriade di decori, sempre garbati, lievi, giocosi. Sono disegni che si ripetono in numerose varianti, adattati da Staccioli a vasi di diverse forme, distribuiti su un fondale che ancora richiama la raffinatezza tonale degli impianti pittorici, alla cui costruzione sintetica tenta di rimanere fedele; sono arabeschi luminosi che si rincorrono sulle delicate epidermidi come le note di una partitura musicale, affollando e gremendo ogni vuoto.
Questa prima produzione fittile, realizzata per lo più con l’uso della tecnica della ceramica invetriata (il processo di acquisizione della tecnica della cottura a “riduzione” è ancora ad una fase aurorale), ha visto la luce ancora a Faenza, nella bottega di Santandrea, e ci parla di un artista che affascina per vivacità e immediatezza dell’inventiva (e per la vastità delle potenzialità espressive), ma ancora in cerca di una autonomia progettuale e realizzativa. Eppure, ben s’intende la crucialità di questo momento: gli anni faentini sono necessari a Staccioli per comprendere come l’immediatezza e la varietà degli esiti formali che comporta l’universo espressivo della ceramica, si sposi con la sua indole; ed inizia a pensare a questa tecnica antichissima come luogo pulsante, come campo immaginativo che gli concede di portare finalmente a compimento il suo sogno formale. Grazie alla manipolazione di una materia inesauribile: la terra.
Prende coscienza, in altre parole, che la condizione essenziale per un artista che non voglia relegare la propria creatività ad un momento effimero, ad uno svago fuggevole, è l’incontro con l’elemento materiale che gli possa offrire il proprio nutrimento, il suo ordinamento, la sua poetica intrinseca. E null’altro poteva essere per Staccioli che la terra, dalla quale le generazioni che lo hanno preceduto hanno tratto il proprio sostentamento: affondandovi nuovamente le mani, Staccioli può riappropriarsi di quelle presenze che il tempo ha disperso, può recuperare la vita che silenziosamente si è insinuata in quelle cavità apparentemente inanimate. Al di là di retorici teoremi culturali, che mai come in questo caso sarebbero fuorvianti per l’analisi di una personalità, Staccioli ritrova dunque nella cultura della terra il legame con il suo ascendente biografico; e un’orgogliosa riconquista del rapporto con l’elemento primario ne orienta, da questi anni, la vocazione, divenendo la sostanza che dà concretezza alla ricerca pura, alla fluttuazione inventiva.
Siamo nei primi anni Novanta, e già inizia a delinearsi quella direzione di ricerca destinata ad approdare, senza più interruzioni, alle invenzioni ed agli esiti della sua più alta stagione creativa, a tutt’oggi in pieno fermento.
Allestito un piccolo laboratorio accanto alla sua abitazione, Staccioli inizia autonomamente a sperimentare ciò che può liberarsi dalla dialettica generativa di terra e fuoco: il suo impegno è volto innanzitutto a mettere a punto la tecnica della decorazione a lustro, memore dei rudimenti appresi a Faenza. Grazie ad uno studio costante – da questi anni, si può dire, da autodidatta – trova gradualmente la formula che gli consente di conseguire risultati di energica iridescenza, per mezzo dell’uso dosato degli ossidi di rame.
Iniziano a vedere la luce, nella sua fucina, vasi e piccole sculture con epidermidi caratterizzate dal forte effetto metallizzato che oggi ben conosciamo, e che vengono ottenute occupando di fumo la camera di cottura, così da creare un’atmosfera riducente (da qui, il termine di “riduzione”), vale a dire priva di ossigeno. Segue con entusiasmo ogni fase del lavoro creativo, misurandosi quotidianamente con l’esercizio della cottura, facendo propri gli accorgimenti ed i trucchi di ogni buon ceramista, che non permette che il fuoco distrugga il lavoro eseguito e, al contrario, renda lucente e preziosa la materia. Un passaggio operativo che preserva tutt’oggi un odore di ritualità, con le fasi dell’esecuzione, dell’attesa, della scommessa finale con l’imprevedibilità dell’azione del fuoco.
Staccioli si fa così esploratore della dynamis interna del colore, inteso come germinazione di bagliore: le trasparenze cromatiche reagenti alla pulsione della luce oltrepassano le epidermidi, per agire nella profondità della materia; lo smalto fa scorrere attraverso la sua tessitura la luce ed il riflesso, mantiene un irraggiamento riverberante, procede per continui sovratoni fino a liberare epifanie brucianti, accattivanti paesaggi di ossimori coloristici.
Quanto interessa l’artista, in questi primi anni di ricerca, è trovare sempre nuove formule di combinazioni di smalti che animino le superfici alla provocazione luminosa. È un mondo, quello di Staccioli ceramista, ricco di gustose e sempre reiterate esplorazioni, un mondo abitato, per analogia con il fuoco che lo provoca, da sostanze iridescenti, permeato di vibrazioni luminose, di riflessi, di colore.
Molteplici divengono adesso i modelli, i temi, le soluzioni compositive, che si possono elencare analizzando la vastissima produzione di Paolo Staccioli, dalla prima metà degli anni Novanta fino ai giorni nostri. In ogni opera, sia questa appartenente alla produzione fittile che scultorea, ci colpisce l’evidente disinvoltura nella citazione di temi attinenti alla classicità come al mondo contemporaneo, nella sovrapposizione di brani di narrazioni oniriche e temi desunti dal suo vivere quotidiano, da rendere assai complesso il tentativo panoramico, e di proposizione critica, che ha presieduto la realizzazione di questo volume.
Abbiamo perciò stabilite, in termini compendiari, le fasi centrali del percorso formativo di Paolo Staccioli, partendo dall’esordio come pittore ed approdando alla produzione fittile (alla quale ha continuato a guardare, sostanzialmente, come un campo di verifica del metodo pittorico), ma vale adesso la pena concentrarsi sulla fase di passaggio alla maturazione plastica, vale a dire quel momento, che costituisce poi l’ambito di effettiva pertinenza della nostra ricerca, in cui l’identificazione fra la cultura della ceramica e la ricerca scultorea giunge, in Staccioli, ad un massimo grado di integrazione e chiarezza concettuale. È, finalmente, l’osmosi delle due superfici, scultorea e pittorica, che si porta a compimento: Staccioli pare interrogarsi sul piano della congiunzione fra il materiale ed il suo rivestimento cromatico, che si fondono, si rivelano, emergono nella capacità di trasfigurarsi.
Possiamo riconoscere, come primi tentativi di scultura, le figurette di pulcinella che emigrano dai partiti pittorici, per ricomparire accovacciate sul collo dei vasi, o puttini che cercano di scalare le superfici scivolose delle steli, oppure le alte torri medievaleggianti, condotte con la decorazione che richiama la copertura marmorea delle chiese romaniche toscane, con l’alternanza di fasce bianche e verdi di marmo di Carrara e serpentino pratese (elemento ornamentale che vedremo utilizzare spesso da Staccioli, anche per rivestire le stesse epidermidi di vasi e sculture).
Parimenti, si rivelano interessanti esperimenti scultorei i bassorilievi per i quali Staccioli procede al recupero di un immaginario mitologico, di forme archetipali tipiche del repertorio architettonico e scultoreo dell’area mediterranea. Ma l’attenzione al mondo classico porta con sé l’esigenza di una nuova nozione, che non poteva, in Staccioli, rimanere una cifra incomunicabile, un’inaccessibile didascalia. Doveva incontrare il suo accattivante repertorio iconografico, ed affiorare così in un impianto narrativo onirico: nascono così le colonne tuscaniche scalate da puttini alati, plinti sormontati da cavalli, timpani ed architravi a rilievo che fluttuano negli spazi di placche in terracotta, assortendo un’improvvisata acropoli. Tutto sorretto dalla sua nota cifra lirica, che gli permette ormai, con mano sicura, di convertire il caotico agitarsi delle tessere di questi bizzarri “mosaici” di sculturine in terracotta, in un ritmo armonico; ciò che conta, ancora, è giocare sulla frantumazione e sull’ironia, assecondando un’imprevedibile felicità espressiva, che salta, come danzando, da un piano all’altro del rilievo.
Ma è con la modellazione dei primi cavalli e dei guerrieri, che riconosciamo il tentativo pienamente autonomo di aprirsi una via d’accesso verso nuove basi di rappresentazione, sostenuto nel pensiero dall’immaginazione e dalla conoscenza della forza della materia.
Il cavallo, abbiamo visto, incarna nell’immaginario di Staccioli, il legame con la storia, sia questa familiare, che relativa ad una tradizione iconografica avviata con il racconto pittorico di Paolo Uccello. La traduzione plastica rimane fedele all’iconografia già sperimentata in pittura – i prototipi sono ripetuti a dimostrazione che non vi è nessuna dissociazione, ma un meditato sodalizio di due mondi che, naturalmente, confluiscono in un unico pensiero – ma è indice di un nuovo processo, che muove dall’intenzione di materializzare – o meglio, rendere monumentale – il repertorio iconografico caro al suo immaginario. Non è a caso che Staccioli sceglie, per la sua prima commissione pubblica, di modellare un enorme cavallo in bronzo, cavalcato da un putto alato, per il parco di Poggio Valicaia, nei dintorni di Scandicci. Una scultura di grandi dimensioni, dove il richiamo al geometrismo di Paolo Uccello è quanto mai evidente, bilanciato nella zona inferiore da una sbozzatura lasciata brulla, dai contorni appena sgrezzati, a creare un suggestivo effetto di non finito.
“Ci vuole gran coraggio”, scrive Gian Carlo Bojani, “ad affrontare per l’ennesima, infinita volta, l’iconografia del cavallo”, riconoscendo in Paolo Staccioli una significativa ambizione, “quella d’inseguire un mondo antico, il sogno dell’antichità, dei frammenti di una civilizzazione cui vuole risalire per accenno di sogni pittorici e plastici”. E, se l’immediata analogia con la ricerca sul tema del cavallo di Marino Marini appare, in qualche modo, plausibile, lo è proprio in questo coraggioso, ennesimo tentativo di dare nuova vita ad un soggetto che porta con sé, inevitabilmente, il peso schiacciante di un’antichissima tradizione iconografica, che parrebbe, a tutta prima, inconciliabile con la sensibilità dell’artista contemporaneo.
Ma, mentre per Marino il cavallo (ed il cavaliere al quale è sempre congiunto), rimane una figura tragica, interpretata come sostituto del dramma dell’umanità, fino al crollo finale, alla catastrofe dalla quale sono sopraffatti uomo ed animale, per Staccioli il cavallo rimane sempre incarnazione del sereno – sebbene sovente pigmentato di struggente malinconia – vincolo sentimentale alle sue origini.
E proprio in questo sentimento è racchiuso l’alto grado del potenziale di trasmissione dell’opera di Staccioli, che scopre, nel momento in cui sceglie la scultura come mezzo espressivo privilegiato, di voler, sempre seguendo l’indicazione di Bojani, “risalire alle origini etrusche, di riacquisirle, di comprenderle e ribadirle”. Quanto mai lontano da ogni teoria revisionistica della storia e del suo ricavato moderno, Staccioli guarda ai suoi antenati come un potenziale inestinguibile di suggestioni, come una fonte straordinaria di eterni sentimenti umani. Ed in questo si, è certo vicino a Marino, allorché dichiarava “Vedo in me un figlio degli Etruschi … Gli Etruschi erano un popolo strano, semplice e raffinato allo stesso tempo. Le loro figure sorridono ironiche, ma questa ironia significa intelligenza e fantasia, fornisce una verità nella verità … Gli Etruschi mi riguardano profondamente, perché l’Etrusco è una natura primitiva. Una vera natura primitiva ha dentro di sé tanto calore umano per continuare a vivere di vita propria e per svilupparsi attraverso i secoli”.
La storia, così come viene concepita da Staccioli, non conosce né avanzamenti né declini; egli riesce garbatamente a ribadire, con disincanto, il suo essere – forse inconsapevolmente – figlio di quella stagione che vide, nella Toscana del primo dopoguerra, il rifiorire di studi ed interesse per la statuaria etrusca. Egli è dunque vicino non solo a Marino Marini, ma anche ad Arturo Martini, a Libero Andreotti, Italo Griselli, Quinto Martini, Oscar Gallo, ed a quanti altri sentirono, nell’umana ruvidità e schiettezza della plastica etrusca, così modernamente lontana da ricerche idealizzanti, un corrispettivo con il sentimento estetico contemporaneo.
L’affermazione di Ranuccio Bianchi Bandinelli, secondo la quale nell’immaginario degli scultori toscani dell’epoca l’Apollo di Veio trionfava non a torto sull’Apollo del Belvedere, è sufficiente per comprendere l’entusiastica adesione ad una corrente, non codificata da nessun manifesto, ma per la quale artisti, storici e critici di differenti scuole e formazioni riuscirono straordinariamente a trovare un terreno di comune sentire, prima che il dilagare del Fascismo trasformasse il tentativo di nuove vie espressive nella rivendicazione strapaesana della superiorità della razza italica assecondando, più o meno intenzionalmente, le tendenze più conservatrici e passatiste (portando, inevitabilmente, le motivazioni originali allo snaturamento ed al deterioramento).
È certamente quel genuino, primo entusiasmo che consente a Staccioli di sentirsi, idealmente, parte di quelle fila. Come se ottanta anni di storia non fossero riusciti a distruggere una lezione artistica ancora capace di risultare aggiornata, anche nel nostro sclerotico tempo.
Tutto ciò asserito, come è ovvio, a patto che le condizioni critiche non siano, comunque, stabilite a priori, e che si proceda nel confronto con le dovute distinzioni: Staccioli rimane, per sua natura, lontano dalla celebrazione sottilmente intellettualistica del mito arcaico, rilevabile negli intendimenti teorici e formali di buona parte dei protagonisti della stagione dell’arcaismo novecentesco. Né è tanto meno interessato da una regressione interpretativa filologica. In maniera del tutto naturale, egli innesta sul tronco della propria tradizione figurativa e tettonica la volontà costruttiva delle proprie opere, ed è certamente in questo che ostenta la sua orgogliosa toscanità.
Ne sono prova le prime formulazioni del tema del guerriero, per il quale Staccioli si misura, per la prima volta, con una plastica più ruvida e materica, elaborando una forma massiccia e rotonda, dalla superficie scabra e modellata a tocchi rapidi ed irregolari, arricchita dagli sgargianti effetti cromatici delle epidermidi. Sono figure caricate di un fascino arcano, che richiamano, nella serrata costruzione formale, il frammento antico: sono guerrieri destabilizzati nella loro integrità, privati degli arti – le braccia completamente amputate, le gambe troncate al ginocchio, spesso li troviamo persino con una benda che ostruisce la vista – eppur dotati di una compiutezza ed intensità espressiva alla quale concorre, senza dubbio, il ricorso all’espediente della citazione del frammento, della scultura mutilata, come un antico reperto, come fosse sopravvissuta a lunghi periodi di incuria e deterioramento.
Omesso è, peraltro, ogni strumento di attacco: il guerriero di Staccioli è dotato di soli strumenti di difesa – se si eccettuano rare varianti con lunghe lance e scudi – che rimarranno, anche nelle versioni più recenti, i suoi dettagli caratterizzanti: l’elmo e la corazza, quest’ultima formata da una fascia continua di minuscoli cavallini con le ruote, che abbracciano il busto del guerriero, portando traccia della vena umoristica e fantasiosa che abbiamo, fin dagli esordi, imparato a conoscere in Staccioli.
Nelle formulazioni più recenti del tema del guerriero – una ricerca, su questa tipologia, che non conosce tuttora stasi – i corpi perdono gradualmente la pesantezza, la turgida voluminosità per farsi silhouettes sempre più insistentemente tendenti alla stilizzazione, caratterizzati da una più ricercata eleganza formale. Attingendo ancora garbatamente da quel luogo di proliferante suggestione di modelli, che è la statuaria etrusca, Staccioli riduce la sostanza plastica delle sculture, senza mai spingersi fino alla smaterializzazione, ad un taglio marcatamente affilato ed allungato, ad una posa sempre più frontale, non priva di una forte ieraticità, appena alleggerita dalla vibratilità cromatica, dai riverberi di luci ed ombre che si alternano entro gli scavi e le incanalature delle bizzarre corazze. Figure che, per il loro sfinamento, riescono ad assumere la sembianza di una forma spirituale, fortemente interiorizzata, di potente carica emotiva e sentimentale.
Accanto alle ricorrenti immagini di cavalli e guerrieri, Staccioli crea una quantità notevole di figure, per la cui costruzione trae spunto dalla realtà che lo circonda, e che poi trasfigura, tramite il filtro della sua inesauribile inventiva, in vere e proprie icone. Tra questi, i borghesi “viaggiatori”, una tipologia che, insieme a quella dei guerrieri, viene insistentemente indagata da Staccioli fin dagli inizi del 2000. Sono, come nelle più tarde formulazioni dei guerrieri, figure dal plasticismo ancora scabro, con forme inclini all’allungamento, alle quali si alternano alcune versioni di viaggiatori con spalle massicce e sproporzionate, sulle quali poggiano piccole teste, appena abbozzate.
Elementi identificativi divengono ora valigette e giacche sgargianti, dalle quali si affacciano colorate cravatte; il passo e la lieve piega delle gambe sembrano accennare ad un cammino, ma senza invalidare quel blocco di immobilità rituale che suggerisce, come nei prototipi dei guerrieri, la serrata inflessibilità delle articolazioni.
Sono figure di un teatro dell’assurdo, per questo così straordinariamente rispondenti alla nostra condizione esistenziale: uomini e donne delle nostre città, costretti ad attendere per tempi lunghissimi treni e metropolitane perennemente in ritardo. Macchiette di colore che animano il grigiore delle banchine, immobili, imbambolate, assorte in pensieri che aiutino a superare l’attesa, pronte a scattare in blocco, come marionette, all’arrivo di un semaforo verde, o di un affollatissimo treno.
Se non avesse, Staccioli, la straordinaria capacità di astrarre elementi desunti dalla realtà quotidiana, per poi trasformarli in storie senza tempo, tutte lievitate dall’accento ironico, il tono si perderebbe, forse, in cronache elegiache. Invece il viaggiatore si lascia andare mansueto nelle mani del proprio artefice, che lo impianta a bordo di inverosimili barchette e carretti, o lo trasloca, come già era stato per i puttini e le bambole, sul collo dei vasi e delle sfere. Ed ancora si trova affiorante dallo spazio di una lastra, raccolto in file fluenti che incedono verso lo spettatore con una miriade di valigette, fra piani in rilevo tratteggianti lunghi cortei di cavallini e bizzarri animali. Ed ecco che quello che poteva apparire come un borghesissimo pendolare, riprende ad essere avvolto dalla sua aurea di liricità, di favoloso viandante pronto a solcare, a bordo di improbabili veicoli, zone incontaminate dell’immaginario.
È chiaro come nella trattazione di questo tema Staccioli si lasci avvincere da un discorso volutamente sempre aperto, in cui alla realtà vengono sempre riconosciuti una pluralità di livelli: così, alla contemplazione può improvvisamente alternarsi al movimento, il gusto del capriccio alla cadenza patetica, l’accento vivace al delicato e struggente piacere del ricordo. In una delle molte versioni della trattazione del tema del viaggiatore, troviamo ad esempio un uomo che porta un bimbo sulle spalle, a “cavalluccio”, ed è in questa che si coglie un registro maggiormente affettivo, biografico, nel quale non possiamo non leggere il melanconico richiamo ad un consueto gesto paterno. Così come appaiono donne, madri – il seno e le rotondità sempre accentuate, quasi a voler richiamare gli attributi della dea della fertilità – che tengono per mano i propri figli, vigorose e vitali Pomone, forti dell’immunità dalle offese della realtà, poeticamente sospese in un mondo prodigiosamente intriso di promesse di fecondità, e di umano tepore.
Nei primi mesi del 2005 il repertorio di Paolo Staccioli si arricchisce di una nuova figura, che rappresenta, forse, la risposta più diretta ed immediata agli stimoli desunti dall’osservazione del mondo intorno a lui. Affascinato dalle immagini dei convegni cardinalizi, ripetutamente proposte dai media in occasione dell’elezione del Pontefice, abbagliato dall’effetto d’insieme dei rossi purpurei delle vesti, Staccioli inizia a registrare le sue impressioni, delineando un soggetto quanto mai accattivante. Un soggetto che prende ancora origine dal mondo reale, ma diviene subito traslato in un accadimento fiabesco, esito della visionarietà dell’artista. Il quale osserva nell’insieme la massa enorme e spettacolare dei suoi modelli, confonde la distinzione tra il dato visibile e l’immagine già distillata nella sua mente, e dà avvio ad una nuova, fortunata tipologia scultorea, dove più che mai gioca la spettacolarità delle volute e dei colpi di pigmento, con una libera effusione di vermiglio che conquista, finalmente, la quasi totalità della superficie modellata.
La struttura plastica dei corpi, nascosta e ammantata dalla gonfia veste scarlatta, mantiene una forma pastosa, materica, modellata rapidamente, nella quale si leggono chiaramente le impronte del pollice e dalla quale emergono le piccole teste, rivestite dal vermiglio zucchetto. Un soggetto, quello del cardinale, che a differenza degli altri viene appositamente formulato da Staccioli per essere inserito in una grandiosa installazione, presentata al pubblico nel giugno del 2005 alla storica Fornace Pasquinucci di Montelupo Fiorentino. Uno straordinario e bizzarro conclave, fermato nel momento in cui, ad elezione avvenuta, i candidati si avviano, non privi di una certa delusione, alle proprie destinazioni. Centoventi sculture discendenti da una piramide, snodate in gruppi che sostano in capannelli, commentando il fatto avvenuto, altre che si incamminano solitarie, racchiuse nei propri pensieri, ed altre ancora, in fondo alla piramide, portate via dagli usati carretti, già fantasiosi veicoli impiegati per guerrieri e viaggiatori.
Una incalzante, tutta toscana, carica ironica è la chiave che risolve l’interpretazione di quest’opera; un fare provocatorio, ma inteso nel senso più giocoso del termine, ha guidato Staccioli nell’ideazione di un conclave alla fine, quando la massa compatta dei partecipanti si frastaglia in tante, indipendenti e coloratissime unità. Ed ancora ci invita, con la consueta leggerezza, a cogliere la sottigliezza dell’allusione, la propensione allo scherzo, la volontà antiretorica che sottintende il suo fare artistico, ed il suo personale legame dialettico con il mondo e la sua società.
Il laboratorio di Paolo Staccioli è, a tutt’oggi, una fucina di opere sempre rinnovate nelle soluzioni compositive, formali e coloristiche, ed il suo cammino artistico non conosce né inflessioni, né incrinature. La sua esplorazione procede, negli ultimi tempi, attuando continui passaggi linguistici, rivisitando quotidianamente i propri temi, sottoposti al vaglio di un paradigma creativo in continua evoluzione, che gli permette di giungere, nuovamente, all’essenza del suo soggetto.
Riprende soprattutto il tema del guerriero, il più significativo dei soggetti scultorei, sviluppandone le premesse fino ad esiti più radicali, in termini di ispessimento volumetrico, di architettura della massa plastica che tende a liberarsi nello spazio, per ottenere una nuova monumentalità. Nascono sculture di grandi dimensioni, ancora bloccate in una immobilità rituale, i piedi e gli arti inferiori sempre più appesantiti, la cui sproporzionata gravità sostiene, quasi con ironia, teste sempre più minute ed assottigliate. Le quali emergono improvvise, trasgredendo ogni canone di stabilità e scala visiva, dalla grumosità cretacea delle corazze.
E pur rimanendo attento a reperire inedite indicazioni espressive nella ceramica, Staccioli pare oggi, allo stesso tempo, interessarsi sempre più al bronzo, più duttile e pregiato, che pare assecondarlo nella resa dei toni screpolati e profondi delle superfici. Così il frammento, la mutilazione, la concentrazione sulla porzione che ha guidato l’artista nella creazione di questa fortunata tipologia, è esaltata dalle patine screziate, che evocano il primitivo splendore di antichi reperti, consunti e offesi dal tempo.
Una rivelazione, che passa ancora una volta attraverso il magma della materia, attraverso la ricerca di una riserva energetica intrinseca, sconosciuta, che promette la scoperta di nuove vie espressive. Alle quali la natura appassionata di Staccioli non si sottrae, ma anzi procede in uno sperimentalismo ansioso, intuitivo, devoto al rituale della pratica e le sue vocazioni, e per questo al riparo da codificazioni e sterili teorizzazioni estetiche e culturali. Una volontà che ha segnato la sua opera nell’arco di quasi un trentennio intenso e prolifico che lo ha portato, oggi, a rappresentare una delle figure di primo piano nel panorama degli artisti toscani contemporanei.
Ne sono prova una nutrita cerchia di estimatori e collezionisti, sia in Italia che all’estero, così come i numerosi attestati di stima che la critica artistica gli ha riconosciuto, le mostre personali e collettive in musei e gallerie, che stanno moltiplicandosi, negli ultimi anni, ad un ritmo incessante.
Ed in ogni occasione, nella presentazione di un nuovo lavoro pare aver raggiunto l’acme della creatività, pare presentarci la pagina più singolare del suo percorso. Invece, dietro il suo sorridere ironico (che mi pare lo stesso delle statue etrusche del quale parlava Marino Marini), si nasconde un artista maturo, che vede con nitidezza la possibilità di soluzioni sempre nuove, vede impalcature messe in modo da poter sempre essere ricostruite. Conta non a torto, Staccioli, che il sottoporci ad un continuo fuoco di freschezza, invenzione e bellezza, che sono le doti che profonde nel paesaggio impoverito della scultura contemporanea, ci conduca ad un rinnovato stupore, ad una distrazione rispetto alla logica, al prevalere del sogno rispetto alla realtà.
E ci sorprende ancora, si, come solo l’uomo che non ha paura di avvicinarsi alle latitudini della surrealtà con la forza della fanciullezza, può fare.
(Dal catalogo della mostra “Paolo Staccioli. Le cortesie, le audaci imprese io canto”, Loggia della Limonaia, Palazzo Medici Riccardi, Firenze, 2014)
«Le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ludovico Ariosto)
Sulle rovine di quelli che furono i leggiadri contorni di Firenze, sul limitare apocalittico fra la zona ovest della città e la campagna, in via del Padule, ondeggia la “frasca” scultorea dello studio di Paolo Staccioli. Ad accogliere gli amici e i visitatori si ergono fieri e monumentali Guerrieri e Cavalieri, eleganti ed imperturbabili Viaggiatori e, in generale, uomini in terracotta a lustro e in bronzo che si prestano a vivere in quel territorio, verde e cementificato, come se si trovassero nei giardini delle antiche dimore fiorentine, al punto da far divenire tale luogo un frammento di una Firenze aristocratica, non turistica, incontaminata e viva solo per la bellezza dell’Arte e per l’eccellenza del suo artefice. Qui il disegnatore, lo scultore, il maestro della ceramica e del bronzo ha realizzato gran parte delle sue opere e continua a crearle nei suoi “forni”, con quello zelo che mescola la sapienza artistica di matrice artigianale – la grande tradizione delle botteghe fiorentine e granducali della città medicea – con l’ironia e l’umoralità dell’uomo saggio, che tanto ha vissuto, e con quella volontà onnivora di conoscenza d’arte e di gente, peculiarità degli artisti del Novecento toscano a partire da Marino Marini. Sono trascorsi alcuni anni da quando Ornella Casazza, Elisa Gradi ed Elisabetta Nardinocchi hanno curato, rispettivamente al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti (2005), al Museo Archeologico di Fiesole (2007) ed al Museo Horne di Firenze (2011), tre incantevoli mostre – che furono presentate in catalogo anche da Antonio Paolucci, da Cristina Acidini e da Claudio Paolini – con le sculture e le ceramiche di Paolo Staccioli. L’accostamento ai magici ambienti dei tre musei potenziava il fascino delle inattese creazioni, che risultavano vivamente congeniali, senza premeditazione, all’icastica presenza della grande tradizione archeologica toscana, della scultura e della pittura fiorentina e delle arti tutte, ma – possiamo scrivere con soddisfazione – un po’ di più delle arti applicate. Gli eventi furono accolti con interesse da una critica attenta alle proposte di un’arte della memoria che, al di là del “moderno”, si ritrova in una moderna forma di dialogo con le testimonianze del passato. L’esposizione attuale organizzata dall’Associazione Culturale LiberArte desidera corroborare, e questa volta su una duplice ed imponente estensione di ambenti di gran pregio, l’aderenza delle sculture e delle ceramiche di Staccioli con luoghi di grande suggestione e così sono stati scelti, per l’allestimento, la Limonaia, il Giardino e il Cortile di Michelozzo del Museo Mediceo di Palazzo Medici Riccardi e il Salone Espositivo dell’Officina Profumo Farmaceutica di Santa Maria Novella, dove prese figura, timidamente, il primo abbraccio fra il Rinascimento mediceo e il Manierismo ed il Barocco declinati secondo il sentire toscano. La plastica e le fusioni bronzee di Staccioli, artista delle Arti del fuoco, vi si ambientano peraltro con la seduzione scenografica delle loro dimensioni, che, giocando talvolta su pronunciati salti di scala, aggiungono all’euritmia delle immagini la magia di arcane apparizioni. Osservando le opere dell’artista fiorentino – siano esse fiorenti figurazioni in terracotta lustrata o in bronzo oppure singolari sfere o vasi di ceramica invetriata – si viene incuriositi dall’onesto e schietto suo narrare: egli veste le sue creazioni di una delicata fantasia pittorica. Inoltrandoci nel regno delle indagini tecniche e delle scoperte estetiche, ecco che la positiva impressione iniziale si converte in un interesse profondo per la genesi e per gli sviluppi del fare di questo laborioso artefice. Le strutture pulite dei suoi vasi, prevalentemente centriche, e delle sue sfere sono dotate di immagini vere ed oniriche al contempo, riportandoci alla memoria sia i decori geometrico-naturalistici della ceramica greca corinzia cha la grafica trasognante e narrativa di Marc Chagall. I suoi Guerrieri sono “cantati” come quelli protagonisti nei poemi classici e rinascimentali. I Viaggiatori, gli Uomini con palla o i Cavalli con guerrieri, con cavalieri ed amazzoni della contemporaneità o con angeli raffigurano uomini, donne e giovani-angeli consapevoli del difficile nostro tempo, “nati” per regalare ad altri uomini e ad altre donne una sorta di antidoto per sopravvivere: l’ironia, la dolcezza, la poesia, la lievità … un certo distacco dalle miserie e dai mali che ci affliggono.
E il procedimento tecnico, legato al conglomerarsi della terracotta, al colore a lustro e alla fusione del bronzo in cera persa, possiede un’efficacia preziosamente entusiasmante. Esiste, a prima vista, nella produzione di Staccioli, una sorta di eclettismo scultoreo, che si giustifica con la sua necessità, da un lato, di cimentarsi con le tecniche del passato e, dall’altro, di verificare quanto della tradizione può servirgli per estrarre del nuovo, dell’originale e perfino dell’inusitato e dell’insolito. Tutte queste esperienze, oggi, hanno portato l’artista ad una professionalità sicura, ad una padronanza dei mezzi espressivi addirittura spavalda, tramite cui governa opere di una monumentalità sempre più rilevante che irrompe nello spazio pubblico e privato con una sorta di soavità esibitiva. Il livello artistico delle sue sculture e delle sue ceramiche cresce, senza soste. Come il bronzo fonde nei crogioli e viene modellato a plasmare immagini umane, zoomorfe e fantastiche, e la terracotta lascia cadere parte di sé sulla stessa sua materia a creare la massa e ad animarla nelle forme snelle delle sculture o piene della plastica, così il dominio dell’idea estetica di Staccioli nei suoi materiali è sempre più netto. Osservai queste sue invenzioni diversi anni fa. La tecnica era la stessa e le immagini scultoree già “cantavano”, magari nella scia di altre più famose che vagamente ricordavano. Quelle di Alberto Giacometti e di Henry Moore, ad esempio. Ora la poetica è compiuta, il legame con la tradizione, incestualmente avvertito, che ha avuto l’ardire di arrivare tanto indietro nel tempo – come Giacometti l’ebbe fino a “riconoscere” l’etrusca Ombra della sera –, fa delle sculture di Staccioli immagini a sé stanti, diverse, solitarie. Il Cavallo con angelo su ruote (in bronzo e acciaio Corten; 2013), ad esempio, nasce da un’intuizione, dopo la visita del nostro al Museo etrusco di Tarquinia, dove si scontra con un cavallino exvoto a dondolo, che la sua mente e le sue mani trasformano in un simbolo antico e moderno di viaggio, di avventura, di gioco nella giostra della vita. Se lo stimolo di partenza è sempre per Staccioli un richiamo di evidente marca naturalistica e, insieme, di letteratura artistica e la composizione mira coerentemente a strutturarsi in modelli di suadente pregnanza imitativa della natura, rimane fermo in lui l’impegno alla ricerca, al modo inusitato della rappresentazione, che non si attua attraverso il gesto perentorio o il declamato di assunti ideologici, ma inizia e si esaurisce totalmente nell’interazione sapiente ed accorta con la materia. Le sue opere conservano sempre, infatti, una preziosità di fattura, un gusto calligrafico per la cura attenta ed al tempo stesso essenziale per il particolare più riposto, ma soprattutto rimangono il portato di una confidenza intima e sicura con un mezzo e una tecnica nella quale confluiscono l’estrema esperienza, l’adesione totale, il virtuosismo prodigioso e l’amore grande e quotidiano proprio del fatto artigianale. La potenza di espressione, il miracoloso equilibrio di forme e di volumi delle opere di Staccioli ci fanno meditare sugli infiniti modi che può avere l’uomo a sua disposizione per liberare la sua anima verso le più elevate forme artistiche. La scultura non è per lui soltanto un’interazione con lo spazio, bensì è un dialogo dell’uomo con l’uomo, dell’uomo con la natura, in qualche modo lacerata dalle vistose tracce che lo stesso uomo ha lasciato e lascia nel mondo. Si potrà eccepire che molte delle sue opere riecheggiano i grandi maestri del passato: gli archetipi muliebri della Mater matuta delle civiltà mediterranee, il primitivismo di Arturo Martini e di Marino Marini, le forme arcaizzanti di Hans Arp, di Alberto Viani e di Henry Moore, nonché certe reminescenze di “antiscultura” di Giacometti e, ancora, esperienze metafisiche; ma tutta questa summa di repertori iconografici e formali riescono, e spesso con esiti felici, a trasformarsi nelle mani di Staccioli in un quid di nuovo e di originale che ci coinvolge e ci affascina. Ed è manifesta, poi, anche una coerenza stilistica, pur nella complessità dei riferimenti all’antico e novecentisti. Se prendiamo in esame le sculture in terracotta o in bronzo, come quelle databili a partire dal 2004 e raffiguranti gruppi di Uomini con palla, di Viaggiatori (con palla, con valigia) e di Guerrieri atemporali, con cotte in maglie di terra ad imitazione di quelle medioevali in ferro o con scudi da guerrieri italici, ci accorgeremo che il plasticismo rivela aspetti di sintesi, pur pittorica, in cui la tradizione antica si sposa con il recupero della figura nel Novecento. E ritrova il toteismo, mediato dall’influenza dell’opera giacomettiana. Forme severe ammorbidite da un plasticismo pittorico – Viaggiatori – si alternano nella sua produzione con altre, invece, maggiormente silhouettate – Guerrieri – e come “bloccate” entro la terra refrattaria o il bronzo. A ben considerare i Viaggiatori di Staccioli, nella loro versione in ceramica, con le loro improbabili giacche coreane o a monopetto a quadri grigio-blu o verdi e con le loro colorate cravatte gialle che da sole “animano” gli uomini che le indossano, non intraprendono un viaggio da un luogo ad un altro, non sono tristi commessi viaggiatori, non sono interessati ad un turismo “mordi e fuggi”; al contrario, vivono il contemporaneo per esplorare il mondo, per sondare tutti i mondi possibili oggettivi e soggettivi. Le loro valigie sembrano misere di indumenti e ricche di speranze; le loro sfere non sono mappamondi pesanti, ma globi leggeri come palloncini da tenere sulle spalle o in grembo senza fatica, se il gioco e l’ironia prevalgono e guidano il cammino. Un simile sentire percepiamo nelle identiche icone in bronzo, solo apparentemente più formali, sicuramente più meditative. Ed i Guerrieri del nostro artista non hanno niente di bellicoso. Le loro armature non coprono del tutto, lasciano scoperte le spalle e parte del busto così come vediamo, con efficacia, in un’opera imponente, intitolata Carro grande, dove tre guerrieri – due uomini e una donna – con scudi in bronzo sono assisi su di un carro in acciaio Corten dalle ruote da biga antica (2013). Le loro armi di difesa mostrano liberi i petti: essi, quindi, non sono “guerrieri per la guerra”, intesa come distruzione coscientemente perpetrata da uomini contro altri uomini, ma, forse, sono soldati che lottano contro la negatività che permea la vita, combattenti del Male assoluto che è fuori ed è specialmente dentro di noi. Al limite dell’astrazione incontriamo in Carro piccolo (opera in bronzo e acciaio Corten del 2011, redatta anche in refrattario) quattro figure di guerrieri e guerriere di grande efficacia espressiva dove Staccioli, rimeditando la lezione di Arturo Martini e di Marino Marini nella semplificazione del mezzo scultoreo, spinge il modellato ad una essenzializzazione delle forme volumetriche e della grafica. Aldilà degli evidenti richiami alla scultura greca d’età severa, rievocano, piuttosto, certe forme di Ernst Barlach e di un Primitivismo accattivante. E in questi corpi le cotte di maglia lasciano il posto a cavalli al galoppo a dare – loro da soli – un senso di moto, di viaggio, di tempo perenne … di libertà: il fato ha destinato per essi una vita dura, chiusa entro schemi rigidi; i loro cuori, i loro spiriti volano liberi senza briglie.
Tale capacità di sintesi tra antico e moderno, tra concettualità e realtà è una delle conquiste più alte raggiunte dal linguaggio scultoreo di Staccioli. Agli ultimi anni appartengono anche opere in terra refrattaria non prive di una resa plastica più morbida e chiaroscurata come i tre Guerrieri (2006-2007-2008), in cui il virtuosismo del nostro imita nella terracotta, in virtù di una particolare patina, l’effetto del bronzo e dove il suo magico giocare con cappelli e con cotte dai caldi colori ha una parte di rilievo. Siamo di fronte a sculture di straordinaria forza evocativa; la slanciata e duttile silhouette recupera, pur nella stilizzazione, formule ondulate e delicate, in cui l’immagine assume un valore memoriale di pregnanza simbolica. Di grande forza metaforica sono pure le sculture di dimensioni ridotte come i guerrieri sulla Barca (terracotta, blu e verde; 2010), con lance e scudi al pari degli antichi eroi in bronzo dell’arte nuragica, o i Cardinali, uomini potenti e sapienti … uomini piccoli e fragili, o, ancora, le Steli e le Torri, architetture che svettano verso il cielo, verso l’infinito, ma ugualmente prigioni severe, dove l’uomo-eroe, nei panni dell’uomo qualunque, scruta dall’alto l’orizzonte infinito o ascende su scala per liberare la sua principessa “della porta accanto”, rielaborando così la miglior tradizione favolistica europea. Torri come edifici che “pesantemente” occupano e caratterizzano un territorio, dal quale, nell’opera intitolata Strada (terracotta; 2008), fuggono guerrieri, uomini e donne a cavallo e a piedi; si allontanano lungo una corsia sterrata e curvilinea, su cui la parola scritta – il Sapere – vuole indicare l’unica via per l’uomo. E, continuamente, altro emerge dal magico cappello dell’artista, del “ludico filosofo”. Le Sfere-I Mondi, solidi dalla forma perfetta ad evocare da sempre l’universo, l’infinito e il soprannaturale, e i Vasi in ceramica invetriata dalle stesse forme tondeggianti – con piccoli colli privi di labbra o con lunghi e sottili colli dalle labbra accennate – o piriformi o, ancora, dalle forme morbide di balaustri affusolati rivelano nel loro decoro una attenta lettura, da parte dell’artista, di specifiche esperienze linguistiche, che vanno dai fregi dei templi ionici d’età greca arcaica alla fase “barocca” di De Chirico – le teorie dei cavalli al galoppo o le giostre con uomini, con angeli e con Pulcinella e Arlecchino –, con un occhio, implicitamente ammiccante, rivolto alla rivisitazione delle immagini zoomorfe di età preistorica presenti nelle Grotte di Lescaux in Francia – di nuovo i cavalli, di sovente bianchi, ma anche gli uccelli – a cui con soavità d’ispirazione affianca richiami all’arte dei Fauves – in special modo Henry Matisse – e della Scuola di Parigi: uomini ed angeli che si librano in un cielo circoscritto e al contempo infinito … nel cielo delle nostre anime. Inneggiano alla vita in virtù dei personaggi raffigurati: Pulcinella, Arlecchino, angeli e uomini e donne della nostra contemporaneità, tutti insieme attori protagonisti della Commedia dell’Arte di un tempo e dell’oggi. Il valore segnico è tutt’uno con una vibrante plasticità dei volumi dal movimentato chiaroscuro e dai colori brillanti anche nella serie dei Tondi con figure a rilievo (prodotta a partire dal 2010), tridimensionali dal corpo vuoto e dalla forma schiacciata a “fiasca da pellegrino-devoto viaggiatore”, con pigmenti rosso-verdi quasi ad imitare il bronzo ossidato e con… figure a rilievo: le icone del nostro artista, gli uomini in cammino di tutto punto vestiti, che qui si accompagnano ad una donna in costume adamitico, moderna Nuda Veritas. Diversamente, in alcuni Vasi o Sfere, dipinti con ossidi squillanti o dai pigmenti chiari e leggeri, l’indagine della semplificazione, della scarnificazione dei piani si mescola a citazionismi addirittura di ricordo leonardesco, come fossero pagine del Codice Atlantico, là dove le scritture riportate interagiscono con immagini figurative essenziali, tutte condotte in superficie a creare, anche, un effetto di trompe-l’oeil, non in chiave realistica, bensì in un’accezione tutta simbolica di sicuro effetto. E a dare vita ad una stretta unione fra gli uomini, i Kouroi ideali dello Staccioli, e le sfere simboliche ecco l’apparizione in Uomo e i suoi mondi (2013) di una figura maschile in abito blu con giacca a quadri – motivo preferito ultimamente dallo scultore per le giacche da uomo – che tiene in grembo una enorme sfera bianca e presenta ai suoi piedi una miriade di sfere di varie dimensioni e con motivi cari al nostro: zoomorfi, grafici e decorativi. Quasi un mondo in monadi frammentate – in meteore – che esce e sfugge dall’uomo, il quale più di tanto non si scompone, perché le “pietre rotolanti” divengono palle da gioco… dal Male al Bene, in questa performance catartica, in questa installazione sovra-reale che va ad occupare buona parte della loggia barocca di Palazzo Medici Riccardi.
Tuttavia è la materia, con la sua tecnica e con le sue alchimie, a suscitare profonda ammirazione e soprattutto, in questi tempi finti e meccanici, autentica commozione: la terraglia dipinta sotto vernice od anche lustrata, il refrattario disegnato o dipinto con ossido di rame e le concrezioni di reti in rame – nei Vasi e nelle Sfere – che, sottili, imbrigliano le terrecotte, così come le corde o il rame o, ancora, il vetro rivestivano, formando reticoli, le ceramiche, le coppe di metallo e i crateri di vetro in epoca romana. Ed i rossi, i blu, i verdi, i bronzi e l’oro di Staccioli non sono semplici decori per le sue opere bensì contribuiscono a caratterizzarne lo stile. Vasi, sfere e costantemente statue e materia. Con gli anni, la scultura di Staccioli si è parimenti avviata verso sperimentazioni formali più imponenti in dimensione allestitiva, che trovano oggi compimento nella enorme sfera con Viaggiatori a riposo (2012), un grande “mappamondo” in ferro su cui sono accomodati con leggerezza un uomo, due donne e un giovinetto in bronzo, quasi a voler riepilogare i temi più cari all’artista – una iconografia che vediamo simile anche nella traduzione in terracotta colorata di grandezza contenuta –. Ed ancora, incontriamo in mostra la versione attuale di una delle sue opere più riuscite e, certamente, tra le più famose. Si tratta di Dondolo, con due figure, una femminile e l’altra maschile, in bronzo e acciaio Corten (2013); una statua eseguita peraltro in diversi esemplari anche in refrattario – dove Guerrieri si alternano con moderni Viaggiatori –, che rappresenta un “ritorno”, per così dire, “purista” nella sua produzione. È abbastanza scontato affermare che la scultura – con l’uomo in una posa impercettibilmente più composta e la donna piegata indietro e con la piccola testa dalla chioma svolazzante, estremamente levigati e “sobri”, vestiti del solito “corsetto” con la giostra dei cavalli (lei) e della maglia a simulare la cotta di metallo (lui) – possa farci rimemorare esperienze del primo Novecento, ma l’artista è riuscito a coniugare abilmente l’elemento ad naturam – le gambe tornite – con quello strutturante delle silhouette, evocante simbologie arcaizzanti. E questo lo leggiamo, in parte, anche in altre sculture monumentali che sintetizzano ad oggi il percorso artistico di Paolo Staccioli come l’installazione creata espressamente per la nostra mostra ed intitolata Giostra Grande (2013; refrattario dipinto sotto vernice e lustrato su binario in corde in trecciate di ferro), formata da “sezioni separate” con statue di guerrieri, di uomini-dei con le ali, di donne-dee che, nella loro morbida stilizzazione – quasi un ossimoro tecnico –, su cavalli dalla testa naturale e dal corpo tubolare che piacerebbe tanto a Fernand Léger, risultano emblematici di una realtà mitica, dove fantasia e gioco hanno campo e si visualizzano – come già abbiamo avuto modo di sottolineare – tramite un gusto forte per i colori blu, rosso, giallo, arancio che rendono improbabile o meglio che sdrammatizzano il codice classico dei personaggi stessi. Icone eterne, poi, nella traduzione in bronzo che lo scultore propone contestualmente, eleggendo ad eroi i singoli Cavalieri. I viaggiatori in giostra – la giostra delle nostre “false verità” – catturano l’attenzione anche nel piccolo formato in terra refrattaria, per quel rimando ad un mondo onirico dove regna su tutto una sensibilità della mente e del cuore, di cui siamo alla disperata ricerca nella nostra società contemporanea. E in chiave metafisica ci appaiono anche un Arlecchino con palla (2013) e un’Arlecchina (2011) dalle insolite forme tornite da dea mediterranea, che sembrano dialogare con analoghe icone di Picasso e di De Chirico, i quali si cimentarono anch’essi con i personaggi del nostro teatro, probabilmente per recuperare, al pari dello scultore fiorentino, una cortese e colta sensibilità e così offrirla ai loro contemporanei. Le effigi di uomini e di donne dello Staccioli, dai volti appena accennati e dalle teste piccole, alle volte coperte con cappelli che scaturiscono da una sorta di compromesso fra quelli di foggia etrusca o frigia e quelli di Pulcinella o, ancora, con altri copricapo che sembrano riprodurre in estensione lillipuziana quello del celebre Guerriero di Capestrano, virile esempio di arte picena del V-IV secolo a.C., interpretano, più che il tempo attuale, la sua crisi, il passaggio a un’età diversa e non ancora definita, passaggio che resta bloccato in una sorta di arresto, di attesa sospensiva. E in questa dimensione, che sarebbe banale definire di sogno, ma che con il sogno ha in comune appunto la sottrazione del riferimento temporale – il sogno non è né attualità, essendo vecchi possiamo sognare di essere giovani, né memoria, ma semmai illusione della memoria –, che si realizza il sentire classico di Staccioli, come recupero non di un’età storica dell’arte, ma di un archetipo, di un elemento che per l’appunto è fuori dal tempo, di un mito, il mito della bellezza, la bellezza come mito perennemente presente.
Ed il mito ha in comune con il sogno l’illusione, sostanza sublime della poesia. La sua scultura non tanto sollecita la memoria, quanto, suggestionandola di poesia, la illude: la illude che i ricordi non siano tali, ma siano palpito d’attualità, e che dunque la contemplazione della bellezza sia ancora possibile. Resta da chiederci come l’artista ottenga un simile, singolare risultato, di una forza poetica così intensa da interdire ogni altro riflesso condizionato della nostra cultura e della nostra mente; da riuscire a isolarla, appunto, nella contemplazione e proteggerla da altre interferenze. La risposta non può essere che nella semplicità di questa bellezza, che si eccepisce da altri riferimenti all’infuori di sé; semplicità plastica che si coniuga a un fattore ideale e può compiutamente realizzarsi soltanto nella purezza dell’idea, per quanto sostanziata di sensibilità. La sintesi, il non detto, l’aura del silenzio avvolgono i volumi di questi idoli plastici della arcaicità dell’oggi, volumi che così silenziosi scorrono, perfettamente lubrificati nella luce che non fa attrito, ma corpo con le loro superfici. La musicalità dei profili che esse delineano intorno al loro nucleo turgido e armonico crea armonia nell’armonia. Le linee esaltano le altre linee, linee di fuga oltre il tempo; limite aperto su un illimite spazio-temporale in cui l’immagine della bellezza, svanendo e così prolungandosi nell’immaterialità dell’idea, deposita l’arcano della sua perennità. E così scopriamo all’improvviso, che le patine lucide e i colori accesi non sono solo esercizi di stile, sfoggio di sapiente valenza tecnica, ma segni di una raggiunta, cristallizzata, respirante e voluta coesione, che blocca ed eterna gli uomini di Staccioli, statue di un tempio per l’Uomo fuori dal tempo, per sempre… L’azione del tempo e dell’uomo, quindi, si è trasformata da corrosiva in eternante. Anche le vernici lucide esorcizzano il tempo che dovrebbero testimoniare; lo evocano non come corso ineluttabile in atto, ma come stampo fissante, stampo perpetuo, di un tempo bloccato. Una scultura, dunque, quella di Paolo Staccioli, degna della migliore modernità europea: di un’artista e di un uomo che, dopo aver riflettuto sull’arte antica e sulle Avanguardie, le ha recuperate con quella capacità di cogliere, anche nell’astrazione o nel gioco di morbidezze neoespressioniste, le matrici continue ed eterne di un sentimento della materia e della forma.
Si può credere che il senso di laica religiosità, di religiosità del fare che scopriamo nelle opere di questo scultore derivi dalla sua linfa sotterranea, latente, propria del lavoro che egli svolge, dalla difficoltà di plasmare nella terracotta e nel bronzo la vita delle cose, degli oggetti o di effigi di esseri umani, dalla ferma volontà di continuare un dialogo quotidiano con la “materia” inerte fino alla compiuta rispondenza. Una religiosità che s’apparenta con l’umiltà di cui ogni vero artista veste la sua persona terrena e che lo sprona a fare altre cose, a farle ancora meglio, nella speranza di placare il bisogno di sentirsi vivo e del proprio tempo. In realtà, se è vera la definizione di Platone che «poesia è qualsiasi forza che porti una cosa dal non essere all’essere», allora è legittimo richiamarsi ad essa per accennare ai risultati raggiunti da Paolo Staccioli nella sua scultura e nelle sue ceramiche, dove egli ha veramente trovato l’esatta dimensione del suo spirito: la vita, quella vita che è uno scavo ardito di valori assoluti dentro la continua ansia di sé e che circola nelle calde figure dello scultore che si scopre, giorno dopo giorno, per dirla con Salvatore Quasimodo, «uno come tanti, operaio di sogni».
(Dal catalogo della mostra “Paolo Staccioli. Viaggio onirico”, Museo Giuliano Ghelli, San Casciano in Val di Pesa, Firenze 2017)
Ad accogliere Paolo Staccioli, per questa sua mostra, vi è un intero museo: il nobile e prezioso museo di San Casciano dove risplendono, fra le tante opere d’arte sacra, gli arredi e i parati della liturgia cattolica, capolavori di fondamentale importanza per l’arte gotica in Toscana quali il San Michele Arcangelo e storie della sua leggenda di Coppo di Marcovaldo, del 1260-70, e la Madonna di Vico l’Abate, prima opera certa di Ambrogio Lorenzetti, datata al 1319.
Scrivevo ultimamente di queste due dipinti che, “popolati di sacri protagonisti ieratici e solenni, e tuttavia vivamente animati da efficacia narrativa e intensità d’affetti, … si prestano qui a far da antenati d’eccellenza agli artisti nostri contemporanei.” E in effetti, l’esposizione dei lavori di Staccioli rinnova qui il piccolo grande miracolo della compresenza tra antico e contemporaneo nelle arti visive, che, all’insegna della rispettiva alta qualità, prende evidenza in legami, rimandi, suggestioni reciproche improntate all’amicizia attraverso secoli. I volti severi e assorti, lo splendore dei colori, il brillio là dell’oro, qua del lustro sulle ceramiche, dialogano senza barriere.
Non è certo la prima volta che Staccioli espone in contesti monumentali e museali, considerando l’intensa successione delle sue mostre presso il Museo Archeologico di Fiesole (2007), il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti (2009), il Museo Horne (2011), Palazzo Medici Riccardi (2013). Ogni volta si è rinsaldata l’amicizia fra la sua arte e le espressioni visive del passato; e forse, nel caso di Staccioli, le origini di quell’amicizia son da cercare in fasce cronologiche lontane, scavando nella sua identità d’uomo e d’artista fino a ritrovare un remoto passato ivi nascosto come un nucleo invisibile eppure decisivo. Perché nell’universo figurativo messo a punto, in anni di attività, da Paolo Staccioli, tipi e situazioni che abbiamo imparato a riconoscere rimandano con insistenza – almeno, così a me sembra – ad antenati toscani anzitutto, ma italici e mediterranei in generale, quali li conosciamo attraverso i loro templi, le loro case e le immagini che lasciarono di sé nei reperti delle loro necropoli. Di fronte al Guerriero di Staccioli, icona dalle innumerevoli manifestazioni, con passaggi di scala dimensionale dalla statuetta al monumento, non si può non riandare con la memoria al Guerriero di Capestrano, manufatto tra i più suggestivi e misteriosi della civiltà picena, come già Anita Valentini commentava nel catalogo del 2013. Il corpo allungato e rigido (che nei Guerrieri di Staccioli è imprigionato in puntute cotte cilindriche), la fisionomia concentrata su visioni che non ci appartengono, e soprattutto il copricapo dall’amplissima tesa fanno dell’alta statua in pietra e marmo appartenente all’antica Aufinum e conservata a Chieti il capostipite ideale della schiatta, cui Staccioli dà continuazione con le sue mani operose.
Le sue imbarcazioni cariche di rematori (in cui subito, condizionati come siamo da immagini e notizie d’attualità, vediamo dei migranti in viaggio verso indistinte speranze e probabili pericoli), ci ricordano gli equipaggi che solcarono in ogni tempo le onde del Mediterraneo, da quelli epici di Ulisse e di Enea a quelli anonimi dei mercanti fenici, degli Etruschi, loro sì, migranti, delle flotte salpate dai porti delle grandi città marinare d’Italia, dei Berberi e dei Turchi in lotta contro la Cristianità contrastati sulle coste toscane dal Cavalieri di Santo Stefano. Un andar per acqua, con tutti i suoi rischi, che lascia nelle opere di Staccioli ampi margini di mistero: chi parte, chi torna? da dove? e perché? E lo stesso ci si potrebbe chiedere dei suoi carri affollati, primordiali mezzi di trasporto per famiglie o gruppi d’incerta collocazione sociale e di ancor più vaga destinazione. Interrogativi che restano senza risposta, mentre il piccolo o grande popolo suscitato dalla sua immaginazione creativa prosegue nelle sue occupazioni. Le quali non sono a dire il vero sempre rasserenanti, anzi.
A volersi immedesimare nei personaggi umani e non solo che ricorrono nel corpus di Staccioli, non s’incontrano solo le arcaiche sentinelle impassibili in sempiterna attesa di nuovi ordini e quei viaggiatori sprovvisti di una meta visibile, che già in passato mi è occorso di definire “personaggi senza casa, esuli e fuggiaschi”; ma anche individui e gruppi colti e costretti in situazioni inquietanti. I grandi uomini oberati da inspiegabili sfere e da misteriose valigie, come Atlanti modernamente oppressi da pesi fatali. I drappelli bizzarramente assortiti sulle superfici curve di sfere e vasi, costretti a tenersi in equilibrio precario sulla sommità per non scivolare dabbasso, nello spazio indistinto fuori dal loro mondo di ceramica policroma, scomodo ma rassicurante: una questione dell’instabilità che si affaccia anche nei dondoli.
E se i cavalli di Staccioli, disegnati o graffiti o modellati, trasmettono un senso di così vitale e disinibita libertà, da potersi paragonare agli animali evocati sulle pareti delle grotte dagli sconosciuti artisti del Paleolitico, anche per loro si prospetta la costrizione d’un movimento ripetitivo predisposto e comandato da un’autorità sconosciuta, quando vengon messi in cerchio, a correre l’uno dietro all’altro in improbabili giostrine, in cui l’allegria è una vernice sottile.
Qui a San Casciano, la selezione delle opere privilegia la figura maschile e femminile dalle forme lunghe e sottili, dalla testa affinata, isolata o in coppia: e le sfere e i portatori di sfere, e tanto altro estratto dai ben forniti archivi dell’artista.
Oltre che per il modellato franco e mai ripetitivo, le creature-creazioni di Staccioli vivono del tripudio delle belle materie, che il loro artista demiurgo padroneggia con annosa esperienza e insieme con sempre nuova e candida sorpresa. Gli splendori e le rugosità di bronzi dalle patine diverse, dal quasi nero al verde profondo al lucore come d’oro, ottengono chiaroscuri di segno forte. Le ceramiche escono dal forno imprevedibili, nella veste di una gamma cromatica sontuosa e varia, alla quale i bagliori dei lustri metallici – bronzei, dorati, ramati – aggiungono sfumature e riflessi catturando la luce per sprazzi e punti. Chi conosce Staccioli e lo ha visto lavorare nella sua ampia officina, da dove ha preso le mosse per una sua propria strada artistica anche la figlia Paola, sa come ad ogni cottura si rinnovi la sua trepida attesa del risultato, ad ogni fusione torni a ravvivarsi la curiosità per il pezzo appena portato all’esistenza. Staccioli nel corso della sua vita ha scelto di darsi tutto all’arte, e da essa viene ricambiato con una ricchezza d’ispirazione, che egli traduce in un’inesauribile, entusiastica energia del fare.
(Dal catalogo della mostra “Paola e Paolo Staccioli, Passaggi”, Scandicci, 2017)
Questa mostra ha due anime ben distinte: una moderna e pubblica, l’altra antica e familiare. È una mostra che vive in spazi urbani interni ed esterni collegati da opere d’arte, grazie soprattutto al fatto che gli spazi stessi sono stati pensati e progettati fin dall’inizio in maniera trasparente, tali cioè da poter passare naturalmente uno nell’altro, uno vicino l’altro. La grande pensilina della fermata della tramvia che porta a e viene da Firenze, l’ampia Piazza della Resistenza e la facciata di vetro del Nuovo Centro Culturale ideato e inaugurato nel 2013 da Richard Rogers (l’architetto, insieme a Renzo Piano, dell’avveniristico Centre Goerges Pompidou di Parigi terminato nel 1977), fanno parte di un unico progetto di riqualificazione urbana in senso moderno e funzionale. Sono spazi di passaggio, di spostamenti, di incontri e relazioni, una sorta di agorà che permette anche delle soste, dei punti di osservazione nella e della piazza stessa, o interni all’architettura che aprono sul paesaggio delle colline di Scandicci, che sembrano estensioni di un quartiere della città stessa, tanto vicine paiono. L’idea che ha provocato e prodotto la mostra Paola e Paolo Staccioli: Passaggi scaturisce proprio dal desiderio di creare un percorso nuovo scandito e segnalato da sculture in bronzo poste all’esterno per finire, passando internamente per statue in ceramica, ad oggetti d’uso comune anch’essi in ceramica. Il tema stesso di queste sculture, quello cioè del viaggiatore, del guerriero (maschile e femminile), della donna e dell’uomo edenici e seminudi uno di fronte all’altra, stanno ad annunciare un viaggio senza tempo e arcaico, testimoniato da sentinelle, cavalli su ruote con tutte le associazioni possibili del caso (giocattoli d’infanzia, inganni di Ulisse, gruppi equestri etruschi, guerrieri di Capestrano, Cavalli e Pomone di Marino Marini etc. etc). Un viaggio che si completa all’interno dell’Auditorium del Centro Culturale con una grande isola di sculture su una piattaforma ovale di legno di Paolo Staccioli e che si chiude con oggetti della convivialità, della casa, del colloquio intimo ognuno evidenziato su un’apposita base, di Paola Staccioli. Dunque l’idea portante è quella di uno spostarsi da un luogo all’altro e di un vedere in modo diverso lo spazio del vivere quotidiano, di prendersi una pausa nel flusso consueto e di lasciarsi stupire e meravigliare. L’effetto è opposto a quello dell’arte pubblica in senso celebrativo, spettacolare e monumentale: non ci accorgiamo più delle statue a cavallo o delle grandi figure in bronzo erette nelle nostre piazze perché le consideriamo ormai parte consumata e indifferente delle nostre abitudini, dei nostri percorsi giornalieri. Ecco allora che immettere temporaneamente delle sculture in bronzo nei luoghi della normalità può diventare operazione di novità e di meraviglia, segno di differenza. Un cavallo di bronzo su ruote riapre le porte delle sensazioni, dei ricordi, delle associazioni. L’esposizione, a partire dalle statue in bronzo poste sotto la pensilina, accoglie non solo visitatori occasionali o interessati che si muovono per la piazza e che si recano in centro, ma nel vero senso della parola dà il benvenuto a quelli che vanno e che vengono servendosi della tramvia. Viaggiatori nel vero senso della parola ed è per questo che il simbolo stesso della valigia, della ventiquattrore o della cartella di un bambino diventano un tangibile richiamo al muoversi della massa anonima dei pendolari. Entriamo ora nel merito dell’anima familiare e antica del progetto. La storia dell’arte e dei grandi artisti del passato, delle opere da loro realizzate, delle celebri architetture e dei monumenti pubblici (quelli rinascimentali in particolare, Firenze è vicinissima), non ha mai smesso di soffiare sull’immaginazione dei posteri e su chi come noi vive il presente. Si tratta di quello che potremmo sintetizzare col termine “influenza” o “ispirazione” (in entrambi le parole è forte la presenza di qualcosa di immateriale che scorre, che fluisce, di etereo), od anche eredità e trasmissione. È una sorta di fluido in cui siamo contenuti, ma di cui non sempre siamo consapevoli. Anni fa Paolo Staccioli (nato nel 1943) era solito percorrere ancora a piedi Firenze per via della sua professione a servizio della comunità, senza pensare di poter realizzare sculture in ceramica o bronzo. Però quel camminare e convivere per buona parte del giorno con le visioni di Palazzo Pitti piuttosto che di Piazza della Signoria e con le loro sculture di marmo, ma soprattutto bronzi e bassorilievi in ceramica a ornamento di piazze ed edifici della città o conservate nei suoi musei, lo ha sottoposto a ventate di bellezza e ispirazione che hanno senza dubbio aperto dei varchi e dei passaggi nella sua sensibilità. Una bellezza aspirata in modo inconsapevole ma costante da chi in qualche maniera era di certo già in grado di esserne colpito, non poteva che dare i suoi frutti. Si dirà che l’ambiente è la causa di tutto? Che lo sia la genetica? E se fossero le due cose insieme, combinate come il rame e lo stagno che formano il bronzo, come l’argilla e lo smalto di una ceramica? Fatto sta che quell’osservatore involontario decide un giorno all’inizio degli anni Novanta di cimentarsi, dopo aver già praticato la pittura, con la scultura in ceramica, diventata col tempo la sua seconda natura.
Certo Firenze, con la sua selva di statue, in questo deve essere stata complice (come anche il vento delle colline e dell’arte etrusca, se non della vera e propria terra toscana dell’Impruneta, di Montelupo Fiorentino o che ha reso celebri le manifatture di Doccia a Sesto Fiorentino), fatto sta che Paolo Staccioli, ad oggi, è uno dei più interessanti scultori che utilizzano in senso arcaico ma non vernacolare, iconograficamente antico ma sensibilmente contemporaneo ed antimonumentale, artigianale ma libero da funzioni, la ceramica ed il bronzo dando vita a figure poetiche, intime, incantate e innocenti allo stesso tempo.
(Dal catalogo della mostra Paolo Staccioli. Opere / Sculptures 1991-2011 Museo Horne di Firenze)
Si è appena chiusa l’esposizione delle sue opere più recenti nella Sala delle Colonne nel Palazzo Comunale di Pontassieve e già Paolo Staccioli si prepara a tornare a Firenze per approdare al Museo Horne, ancora una volta in collegamento diretto con il retaggio degli artefici del passato, con una straordinaria mostra che offre al pubblico nuove opere ispirate alla memoria, al sogno, allo spazio, al desiderio, al tempo, al silenzio, all’attesa. Chiuso nel suo laboratorio, può ricordare, plasmando memorie lontane, i piaceri provati sui testi antichi. Riscoperti e ricreati con libertà e candore, modella la sua identità e la sua partita si gioca in una contraddizione fra il bisogno di essere moderno e insieme antico, conservatore di forme e di cangianti superfici. Sin dalle decorazioni delle prime forme vascolari, rielabora soggetti e temi già ampiamente indagati dagli esordi nella pittura su tela; sembra anzi, condividendo le parole di Nicola Micieli (1997), che Staccioli abbia sempre dipinto in funzione della ceramica, delle sue accattivanti e traslucide superfici favorite dalla complicità a volte imprevedibile del fuoco.
È capace di scherzare con Eros e ce lo mostra come un bambino alato che gioca da solo o assieme ad altri fanciulli divini modellati a tutto tondo intorno al collo di un vaso che assurge spesso a oggetto del loro divertimento, a rievocare, per esempio, i vasi prodotti in antico a Canosa di Puglia, come ha ben detto Maria Anna Di Pede scrivendo dello splendido vaso con figure plasmate a rilievo, realizzato nel ’98 in faenza ingobbiata dipinta con ossidi e sali sotto vernice e lustrata di “uno splendido rosso-bronzo che lo fa rifulgere di una luce infuocata, propria dei più suggestivi tramonti” (Tommaso Paloscia 1999), presentato alla mostra: Memorie dell’Antico nell’arte del Novecento al Museo degli Argenti a Palazzo Pitti, nel 2009. Ma un puttino sa cavalcare, dall’aprile 2000, nella bellissima natura del Parco di Poggio Valicaia, sopra Scandicci, abbracciato al collo di un possente cavallo in bronzo, alto due metri, verde come il cavallo dipinto in verde terra da Paolo Uccello nel duomo di Firenze, e sa guidarlo a esplorare le vie degli uomini.
Poi, in una visione fantastica e visionaria del reale, Staccioli indaga il suo personalissimo rapporto con il ‘paesaggio’, un paesaggio che è sempre lo stesso, quello carico di racconti incastonati in altri racconti di cavalli alati, di leggeri cavalieri sospesi nel vuoto anche se fissati in un telaio con le ruote come nel giocattolo della nostra infanzia o in movenze da giostra o sospesi in improbabili dondoli, dove saliranno anche gli uomini per raccontare il mondo dei desideri e delle speranze. Utilizzando con illimitata fantasia quei temi a lungo meditati in questi ultimi anni e divenuti ormai significativi nel suo repertorio, è riconoscibile senza ripetersi, ma dando l’impressione di restare sempre sullo stesso tema, quello del cavallo che sperimenta ancora in forme che riempiono fittamente lo spazio, saturandolo completamente, uno spazio anch’esso senza gerarchie, nel quale non esistono vicinanza e lontananza, sopra e sotto, prima e dopo.
La spazialità, pur sempre compressa da piccoli cavalli in rilievo, si definisce nelle armature dei suoi bonari e immobili guerrieri che, pur provando forse un sentimento di nostalgia per un luogo dove non sono mai stati, non torneranno, né partiranno mai da qui per combattere, pur armati di lancia e scudo; anche se stipati in piccole barche non toccheranno mai terra, o addirittura ridotti a mezzo busto e issati in grandi carri con le ruote, compatti come temibili carri armati, non affretteranno certamente il viaggio. Sono tuttavia figure maschili e femminili caricate di un fascino arcano: privi di braccia, spesso le gambe troncate al ginocchio, rievocano il frammento ma “l’elmo e la corazza, quest’ultima formata da una fascia continua di minuscoli cavallini con le ruote, che abbracciano il busto del guerriero, portano traccia della vena umoristica e fantasiosa che abbiamo, fin dagli esordi, imparato a conoscere in Staccioli”, così le descrive Elisa Gradi in occasione della mostra di Staccioli al Museo archeologico di Fiesole nel 2007. Staccioli sa davvero giocare con tenerezza e stupore di fronte alle sirene della modernità e alle memorie dell’antico perché, come ha scritto Antonio Paolucci parlando dell’artista in occasione della mostra del 2005 al Museo delle Porcellane a Palazzo Pitti da lui intitolata: Le gioiose ceramiche di Paolo Staccioli, “Si può scherzare con il Marte di Todi e con l’Arringatore? Con lo Stile orientalizzante e con il Liberty? Con le Torri di San Gimignano e con l’obelisco di Axum? Con Gio’ Ponti e con Picasso? Certo che si può, anzi si deve. Poiché l’ironia, il sorriso, il disincanto sono antidoti efficacissimi contro la retorica e contro i manierismi”.
Con naturalezza Staccioli è capace di radunare in gruppi di sette, otto, dieci, cento, i suoi numerosi e silenziosi guerrieri e i suoi enigmatici viaggiatori che divengono icone della modernità e sebbene pronti per un viaggio di ritorno nella memoria non partono: attendono, forse, un gruppo di altri misteriosi Viaggiatori con sfera, vestiti in maniera originale, con colori sgargianti e in giacca e cravatta, che tengono una sfera sulla spalla, e come gigantesche figure di Atlante, devono sorreggere il mondo. Pur nel travestimento umano del mito, ugualmente un senso di mistero avvolge questi quasi acefali personaggi, allontanandoli da qualsiasi legame diretto con la realtà, creando un mondo che non esiste, ma che è presente nella mente di Staccioli quando medita su memorie di gusto surreale e metafisico.
(Dal catalogo della mostra “La metaforizzazione dell’arcano”, Castello dell’Acciaiolo, Scandicci, 2008)
Partiamo da una considerazione tanto chiara quanto determinante: l’opera di Paolo Staccioli fa parte, da tempo, del “sistema dell’arte”; certamente, nel senso che Dickie (G.D., The Art Circle, N.Y., 1984) ci dice, che “l’opera non è che un artefatto divenuto arte in quanto ha ricevuto lo statuto di possibilità di essere candidato alla valutazione di un’istituzione sociale detta mondo dell’arte”. Ed infatti, la produzione di Staccioli ha già una letteratura di tutto rispetto, che si distende dall’88 (Elvio Natali), fino ai nostri giorni (Elisa Gradi), attraverso le note prestigiose di Ornella Casazza, Antonio Paolucci, Giuliano Serafini, Alberto Gavazzeni ed altri.
Ovviamente presente tra gli artisti della “trilogia” di Tommaso Paloscia (“Accadde in Tocana”), Paolo Staccioli è ancora oggi rubricato come “ceramista” riconoscibile per “leggerezza”, “grazia” e “ironia” (Paolucci). “Le terrecotte smaltate e le ceramiche – ebbe a dire riassuntivamente Paloscia – sono meravigliosamente decorate con una fertile inventiva che vi intrepreta motivi arcaici mentre, recuperando altri temi che la cultura toscana suggerisce, si sposta nel tempo a riproporre cavalli finemente scalpitanti”; ed ancora: “Formelle componibili in refrattario smaltato si dispiegano piacevolmente in una serie di episodi che possono sopravvivere isolatamente…”. Questa valutazione critica non abbandonerà più la letteratura della sua opera, divenendone, nei diversi autori, la “cifra distintiva”. I giudizi saranno più o meno gentili, più o meno coincidenti, più o meno consonanti. Il cliché si aggiusterà, nello scorrere delle occasioni espositive, evocando “fiabe partorite dalle battaglie di Paolo Uccello”, “l’accettazione umile del retroterra artigianale della sua opera”, la bottega come “laboratorio fucina”. Ed anche nelle letture più riflessive e impegnate (meno d’occasione), come in quella recente di Elisa Gradi (E.G. Paolo Staccioli, I segni della terra, 2007), si parla di spericolate acrobazie affidate a giochi immaginari, ad esprimere “una prosa vivace e disincantata, ricca di neologismi, a metà tra il colto e il dialettale, tra iconicità tradizionale e fresca spontaneità”.
Atro motivo di omologazione di una plastica “acrobatica” per Staccioli, è il comune richiamo alla plastica etrusca che fu anche del grande Arturo Martini che, ci pare, sia un bel titolo di merito.
Oltre la “grazia” e l’”ironia”, verso l’opera d’arte.
È mio parere che l’accompagnamento critico discreto e compiaciuto, fatto fin qui dell’opera di Staccioli, non lo abbia aiutato a staccarsi da quello stato di raffinato “artista-artigiano” (detto nel migliore dei modi e con tutto il profondo apprezzamento per la cultura artigiana) buono à tout faire, dai “Cavallini” ai “Viaggiatori”, dai refrattari agl’invetriati conseguenti alla frequentazione del laboratorio faentino del ceramista Umberto Santandrea. Ricordiamoci che anche Lucio Fontana affidò i suoi esordi alla ceramica con la sua “Paulette” (1936) e la “Battaglia dei cavalieri” (1951), ma che poi trovò la sua singolarissima e personalissima strada e oggi nessuno lo ricorderebbe se non per i suoi “Concetti Spaziali” (“i Tagli”).
Credo dunque, sia giunta l’ora in cui Staccioli lasci alle spalle le sue pur utili sperimentazioni, per puntare sulla parte forte della sua scultura, quella che affida al soggetto, alla essenzialità plastica la valenza del suo linguaggio, distillandolo dagli accessori, senza indulgere troppo nelle squisitezze virtuose dei cromatismi che rischierebbero di riallontanarlo dall’arte per riavvicinarlo all’artigianato. Insomma, è tempo che il nostro Artista scelga definitivamente la sua strada (che può esser già di notorietà europea e internazionale), che lo porterà ad essere unico e inconfondibile, lontano da (pur involontarie) inflessioni decorative.
Audacie plastiche no convenzionali. Staccioli “createur sans repos”.
La grandezza artistica di Staccioli (da depurare da quanto si è detto), a saper vedere il suo percorso artistico, impatta, filologicamente, con alcuni artisti e precise opere, quali Lörcher, Arturo Martini, Marino, Giacometti. Ma vediamo partitamente questi “crediti culturali”, consci o inconsci che siano, ma fattuali e riferibili. A cominciare da Fritz Koenig, con i “Gruppi di Cavalieri”(1956) che non poco si avvicinano a certi soggetti di Staccioli; o di Alfred Lörcher, operante in Germania e non a caso direttore dei corsi di ceramica a Stoccarda, che conta, nella sua opera, un pannello in terracotta –“Cavalli” – che sembra essere uscito dallo stesso forno dello Staccioli. Del resto, non basta evocare genericamente Arturo Martini, il quale per il suo amore e la sua identificazione “etrusca” a troppi si adatta e non certo solo al Nostro; semmai, dell’artista trevigiano, c’è un’opera particolare che va invocata, ed è “Il sogno” (1931) della Raccolta Ottolenghi, ove è tutta l’impaginazione dell’interno/esterno che può aver colpito Staccioli. Ed ancora va detto del rapporto di suggestione – inevitabile – con Marino Marini, che non è richiamo generico, ma mirato ai “Cavalieri” piuttosto che ad altri soggetti. Certamente, di Marino, c’è la suggestione nella bellissima opera equestre di Poggio Valicaia, che, abbandonando “le superfici brulicanti, fermentanti, dove la luce aderisce e si rapprende in rughe, incisioni, screpolature…” (De Micheli), si propone come “Miracolo” nuovo, un po’ fiaba, ove la personalissima, mutila soluzione compositiva è come un’apparizione improvvisa, di meraviglia, così come appaiono cose e personaggi nel Sacro Bosco di Bomarzo. Ed allora anche i “Guerrieri” (che sembrano più portatori di pace che di guerra), traguardano i loro spazi antistanti con uno sguardo metastorico, senza tempo, che sembra riconciliare, nella distanza del tempo, guerra e pace che si annullano nel tempo: lo stesso effetto, a ben guardare, che si ha con i guerrieri dell’esercito di terracotta di Xian. Questa dunque, è la grande intuizione di Staccioli: unire con l’arte civiltà lontane, coagulare con la sua scultura, tipologie lontane nel tempo e nello spazio.
(Testo di presentazione della personale “Paolo Staccioli”, Galleria Selective Art, Paris, 2009)
Era di buon mattino quando Paolo Staccioli mi ha accolto nel suo studio di Scandicci, una casa-laboratorio circondata da un grande spazio verde, reso piacevolmente ombroso da alberi fruttiferi; più in là, ai margini del recinto, un grande orto, ancor oggi rigoglioso per l’impegno quotidiano dell’artista, che si sente irresistibilmente attratto dalla terra, dal suo profumo, da una voce che, nascosta tra le zolle, sussurra memorie di famiglia. Fattosi artista, Paolo non ha tradito questa sua dimensione di vita, questo suo diuturno, rigenerante contatto con la dea genitrice. Era quasi inevitabile che, dovendo scegliere il medium con cui dare forma concreta alla sua fresca e vivace vena creativa optasse per un materiale che, come la terra, divenisse fertile e generoso a contatto con l’acqua; ecco dunque la scelta dell’argilla, differente dalla terra comune solo perché capace di dare, attraverso un procedimento tecnico tra i più antichi dell’umanità civilizzata, eterna sopravvivenza ai suoi frutti. “Non ha l’ottimo artista alcun concetto c’un marmo solo in sé non circonscriva col suo soperchio”, scriveva Michelangelo, per chiarire che il suo processo creativo consisteva nel far uscire dal blocco di marmo una forma già contenuta al suo interno, nel far germogliare quel seme che una mente superiore proprio lì aveva piantato. Vedendo i pani di argilla accumulati nello studio di Staccioli e, poco più in là, un esercito di sculturine allineate sulle mensole, appoggiate sui bancali, ritte sui piedistalli o gettate alla rinfusa in scatole di cartone, perché nate con qualche difetto, si prova la sensazione che un brulicante mondo di figure, ancora racchiuso in quei pani, stia implorando l’artista di aiutarlo a uscire dalla materia, per godere della luce, per respirare a pieni polmoni, per partecipare al festoso congresso delle altre. Paolo, che sente quelle voci, non si fa pregare a lungo. Le sue mani plasmano infaticabilmente e le immagini sbocciano in quantità, duttilmente rispondenti al volere del loro demiurgo. Ancora bagnate, hanno bisogno di aria tiepida. Pigramente vanno allora a disporsi sotto l’ombra di un grande fico, sopra un carro di legno. Inizia così il loro viaggio. Come gli umani, di cui imitano le sembianze, si avviano a percorrere le strade della vita. Non prima, tuttavia, di venire sottoposte al battesimo del fuoco. E’ a questo punto che la perizia del maestro, la sua sciolta abilità di plasticatore, si trasforma in arte ceramica. Ed è questo il momento in cui la bontà dei materiali utilizzati, il metodo di lavorazione, la corretta gradualità di essiccazione vengono sottoposti alla prima, importantissima prova, quella della cottura. Superata la quale (ma il maestro Staccioli, padrone fermo e sicuro del mestiere, difficilmente delude le sue creature), non resta che tornare nell’atelier, questa volta per vestire le immagini di un abito colorato, che diverrà pelle riflessante quando il secondo fuoco, pieno di imprevedibili effetti, avrà fatto il suo corso. Come per il fonditore, quando il bronzo, fattosi liquido, cade dal crogiolo nel foro della statua, o per il restauratore, quando la colla calda viene stesa sul retro della tela in vista del rifodero, così per il ceramista il momento della seconda e ultima cottura rappresenta un momento di grande tensione. In questa fase, che è la conclusiva, l’abilità dell’artista si palesa a tutto tondo. Paolo Staccioli consuma questo rito quasi sempre in compagnia della moglie Gabriella, che controlla la temperatura del forno, e della figlia Paola, anche lei bravissima ceramista. Vedere l’intera famiglia in trepidante attesa del momento decisivo, seguire i loro sguardi, le loro emozioni, le loro discussioni al momento dell’apertura del forno è sensazione straordinaria; è tornare con la memoria indietro nel tempo, nelle botteghe rinascimentali, dove “la pratica artistica – come ha scritto Martin Wackernagel – era strutturata come un lavoro di bottega” – e dove, specie quando si metteva mano a importanti commissioni “si assisteva alla cooperazione, su grande scala, di numerosi membri del personale”. La bottega, dunque, non solo come luogo asetticamente votato alla produzione di manufatti, ma come spazio di incontro, di socializzazione, di confronto, di formazione, come spazio familiare nel quale trascorrere la totalità della giornata in un clima di fraterna, continua condivisione di piaceri, di soddisfazioni e, talvolta, di delusioni. Raffreddate nella materia, ma non nei sentimenti e nelle emozioni, che ora sono in grado di trasmettere, le figure di Paolo cominciano a dialogare con l’esterno, a parlare con chi avrà voglia di ascoltarle. Molti sono i messaggi che intendono proporre. Piccoli opliti catafratti di vago sapore nuragico, sigillati nelle loro armature, protetti da scudi umbilicati, con lunghe picche in mano, si dispongono a falange non per offendere, ma per andare incontro, adeguatamente muniti, alle difficoltà della vita. Questo stesso messaggio, amplificato da dimensioni assai maggiori, è affidato a una serie di guerrieri con cotta metallica, rudi uomini d’arme che presentano arti inferiori di sproporzionata massività e teste minutissime; “le quali – come ha scritto Elisa Gradi – emergono improvvise, trasgredendo ogni canone di stabilità e scala visiva, dalla grumosità cretacea delle corazze”. La vita intesa come strada faticosa, come percorso in salita, irto di asperità e di ostacoli che vanno superati con coraggio e determinazione, è il concetto da cui muove il corteo di uomini e donne che si inerpicano, con composta ritualità, lungo la pancia di un vaso in refrattario dipinto; la gradinata che i nove personaggi, distanziati a gruppi di tre, stanno salendo con ritmo lento e cadenzato termina sul collo del vaso. Non posso fare a meno di pensare al famoso monte di Cratete del pavimento del Duomo di Siena; lì un gruppo di filosofi, portati su un’isola montagnosa dalla barca della fortuna, è in marcia alla conquista della cima dove alloggia la sapienza e dove i beni materiali perdono valore. E’ difficile arrivare lassù, perché il sentiero nasconde molte insidie. Ascendere il monte sapienziale e raggiungere la meta è tuttavia l’obiettivo al quale ognuno deve tendere. Ulteriore messaggio è affidato a una lastra in bassorilievo dove un gruppo di personaggi sta marciando verso l’osservatore, lasciandosi alle spalle cavallini ordinatamente disposti in file isometriche. In un mondo degerarchizzato, dove uomini e animali convivono in perfetta armonia e dove fiaba e realtà si intrecciano fino a confondersi e a rispecchiarsi l’un l’altra (cavalli di stile orientaleggiante trottano assieme a cavalli di legno montati su ruote), personaggi dignitosamente vestiti, diversi per sesso ed età, si dirigono compatti, da pelizziano Quarto Stato, verso il proprio destino, portandosi appresso una piccola valigia. Metafora costantemente ricorrente nella figuratività di Staccioli, la valigia è il contenitore dei sogni, delle aspirazioni e dei desideri che ognuno di noi porta con sé. Nel mondo poetico di Paolo nessuno è escluso: come dimostrano i centoventi cardinali che egli ha istallato nel 2005 alla Fornace Pasquinucci di Montelupo Fiorentino. Alcuni a piedi altri su carri a quattro ruote, i rossi protagonisti della singolare, purtroppo effimera, parata di Montelupo, stringono in pugno il loro piccolo bagaglio. Un modo per dire, con il linguaggio metaforico dell’arte, che passioni, sogni e desideri accompagnano tutti, indipendentemente dalle occupazioni, dalle scelte di vita, dalla classe sociale di appartenenza. Colpisce molto, nella produzione di Staccioli la serie di torri. Apparentemente inespugnabili, esse sono prese d’assalto da uomini che si industriano a conquistarle; qualcuno fa uso della scala, altri si infilano in strette feritoie; altri infine, esausti ma felici, si affacciano vittoriosi dai merli di coronamento per guardare, finalmente appagati, il mondo dall’alto. Può accadere che alcune torri, al pari delle urnette cinerarie etrusche, tengano aperta la loro porticina per favorire l’accesso alla sfera più alta, quella del sovrasensibile, dell’immortale, dell’eterno. Il concetto della vita che scorre, del tempo che fluisce ininterrotto, della fragile condizione umana affidata ai flutti del destino, è riassunto da Staccioli nelle barche piene di personaggi, citazione sapientemente rivisitata delle imbarcazioni funerarie egizie, dove schiavi operosi si affaccendano sul ponte della nave per accrescere, con loro industriosa attività, la prosperità del regno e la gloria del faraone. Efficace anche il tema, quasi sempre sviluppato su lastre fittili, della rovinosa caduta di architetture classiche: archi spezzati, colonne infrante, are sormontate da improbabili idoli, figure gesticolanti, spesso in libera caduta fra edifici ruinanti, si accompagnano a putti alati che, librandosi in volo, annunciano la rinascita. Nel catalogo della mostra di Palazzo Pitti si vede un guerriero che mette in salvo due colonne. Forse è l’estremo, inutile tentativo di un soldato romano di arginare la fine del mondo antico. La visita al laboratorio di Staccioli volge ormai a conclusione. Mi attende, però, la sorpresa finale. Entrando in una grande sala, da poco attrezzata a nuovo laboratorio, vedo, disposta in un angolo, un’impressionante, silente teoria di omenoni; non saprei diversamente definire la serie monumentale di uomini in cammino che si trascinano dietro grandi globi, allegoria della fatica che ogni individuo è chiamato a sopportare nel corso della propria esistenza. Elegantemente vestiti, portano innanzi, con lentezza da automi, il peso della vita. Penso alla loro fatica, che è praticamente illimitata; perché a differenza dei modelli che li hanno ispirati, non hanno di fronte il tempo del reale, ma quello dell’arte.